Può sembrare una banalità asserire che il cinema vive di situazioni forti ed estreme, eppure è proprio guardando la trattazione di situazioni limite che possiamo capire la forza di questo mezzo espressivo. Non per nulla la violenza fisica e psicologica e spesso una leva potente delle narrazioni filmiche e un elemento intorno al quale spingere al massimo la sperimentazione espressiva. Questo avviene perché il cinema è anche una forma di intrattenimento che vuole catturarci con le emozioni forti che solitamente non proviamo, per fortuna, o che se ci sono capitate possiamo provare a interpretare attraverso uno sguardo altro.
Il legame profondo tra cinema e violenza, nel concetto ampio del termine, viene sottolineato all’inizio del film Guerra e Pace di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (Orizzonti): un restauratore osserva le immagini della guerra di Libia nel 1911 e osserva come il semplice atto di riprendere abbia in sé una ferocia e una crudeltà innata, nel suo fermare l’immagine dei protagonisti del conflitto, che ci appaiono indifesi di fronte al nostro ossessivo osservare. Il film del duo di documentaristico esplora proprio questo legame primitivo tra la registrazione delle immagini, foto e cinematografiche, e l’arte della guerra, guardando a situazioni differenti quali l’unità di crisi italiana o la scuola militare ECPAD (Agenzia dell’Immagine del Ministero della Difesa francese), dove i cadetti vengono preparati anche alla registrazione delle immagini dei conflitti. Nelle due ore di esplorazione di questo tema naturalmente sono molte le immagini forti, usate però con grazia e senza voyeurismo, assumendo quasi una dimensione didattica atta a mostrare la naturalezza di questo rapporto tra cinema e guerra e le riflessioni che ne possiamo trarre.

Alla mostra ci sono anche film che parlano di violenza in maniera più esplicita, come il danese Shorta di Anders Ølholm e Frederik Louis Hviid (Settimana della Critica), che racconta una giornata di scontri nel ghetto musulmano di Copenaghen dal punto di vista di due poliziotti molto diversi tra loro. Le prime parole che udiamo sono “I don’t breathe”, parole drammaticamente famose pronunciate da George Floyd durante l’aggressione da parte della polizia, ma il film dialoga anche apertamente con Les Misérables. Anche qui due poliziotti si trovano isolati in “territorio nemico”, alle prese con uno scontro armato violento in un quartiere di povertà e abbandono, ma rispetto al film di Ladj Ly qui i contributi dei diversi personaggi si moltiplicano, andando ad evidenziare altre contraddizioni e tensioni. Emerge però quanto simili sono queste situazioni di disagio sociale, diffuse in tutta Europa e spesso scena di violenza e crimine, dove a pagare sono i più giovani e indifesi. Il film è cruento e dinamico, ci impedisce di prendere fiato e segue dei personaggi sfaccettati che evolvono mentre li guardiamo.

Tutt’altro uso della violenza é quello presente in Dear Comrades! di Andrei Konchalovsky, autore che avevamo già amato alcuni anni fa per il suo Paradise. Questo nuovo film è più dinamico, segue l’arco di tre giorni nel 1962 in cui si compì il massacro di Novočerkassk, attraverso gli occhi di Julija Vysockaja, che interpreta un funzionario del partito comunista che crolla sotto il peso della scomparsa della giovane figlia durante gli scontri. Il film incalza al suo inseguimento, tra ospedale, obitorio e interrogatori del KGB, in un crescendo di violenza che viene però mostrata morbidamente, a piccoli passi, e attenuata dall’elegante bianco e nero che contraddistingue i film di questo autore. Un uso della violenza calibrato, in un crescendo emozionale, che si svolge negli ambienti orchestrati con cura e ripresi da angolazioni inaspettate.
La violenza nel cinema ci fa stare sulle spine e ci spinge a provare delle emozioni mai provate, e qui alla Mostra ci sono stati già tanti altri film che hanno contribuito a questa riflessione, da Quo vadis, Aida? a Pieces of a Woman. Questi film ci devono scuotere e far entrare in contatto con mondi e punti di vista diversi, ma per farlo in maniera soddisfacente la soluzione è sempre quella di trovare un modo unico e autentico di avvicinarci all’ignoto.