Il lato femminile di Venezia 77

Si è parlato molto del ruolo delle donne in questa Mostra del Cinema, la prima a contare ben otto donne tra i concorrenti per il concorso ufficiale. La questione della componente femminile è importante, ma anche critica. Personalmente vorrei vedere sempre tanti nomi di registe affollare non sono i festival, ma anche le programmazioni nelle sale e i corsi universitari, ma le registe sono ancora poche, e considerate principalmente nel dibattito proprio in quanto donne, non in quanto artiste. È un discorso davvero complesso, che trascende il solo ambito cinematografico. Sono però sempre stata dell’idea che l’importante resti sempre la qualità del film, al di là del sesso dell’autore. Con queste premesse vorrei parlare di alcuni film firmati da registe che ho visto in questi giorni.

Per cominciare questa edizione ha visto il grande ritorno di Susanna Nicchiarelli, acclamata pochi anni fa per il suo Nico, 1988, che vinse come miglior film della sezione Orizzonti e avrebbe avuto buone chance di vincere qualcosa anche se avesse partecipato al concorso. Grande attesa quindi per questo Miss Marx, film che approfondisce la figura della figlia più giovane dell’autore de Il Capitale. Purtroppo, nonostante le premesse di un film in costume dirompente a ritmo di musica rock, il risultato risulta didascalico e non molto originale, a tratti ridondante e troppo compiaciuto nelle sue trovate stilistiche. Peccato perché la storia poco nota si presta a una riflessione sul ruolo della donna che va oltre il periodo storico, puntando il riflettore su una questione fondamentale: anche donne economicamente libere, istruite ed emancipate finiscono per accettare situazioni di sottomissione volontariamente, per pulsioni innate, desiderio di essere amate, spiriti da crocerossina, affetto o mille altri motivi. Un tema difficile da analizzare, che infatti rimane incompleto.

Altro film in concorso, diretto da Mona Fastvold, é The World to Come, che ci porta anch’essa indietro nel tempo a metà ‘800, dove due donne nutrono una passione segreta alle spalle dei mariti. Anche qui il tema fondante è la libera espressione delle donne, desiderose di imparare, di scrivere e di vivere emozioni, svincolandosi dai doveri domestici necessari alla vita nelle praterie. Nel quadro romantico e al tempo stesso spaventoso della natura incontaminata, questa storia d’amore si snoda con toni molto moderni e decisi. Risulta coinvolgente, ma sul piano della novità, contenutistica quanto stilistica, il film non aggiunge nulla di nuovo, non c’è ancora il tipo di sperimentazione che mi aspetterei da un concorso. 

Il discorso cambia passando al film presentato all’interno di Giornate degli Autori, Preparations to Be Together for an Unknown Period of Time di Lili Horvát, un film che ibrida i canoni del film romantico con il mistery. La protagonista è una neurochirurgo che rientra nella sua città, Budapest, convinta di avere un incontro romantico con un collega, che però pare non ricordarsi di lei. Il film analizza le diverse fasi dell’innamoramento e del l’inseguimento della persona amata, con il carico di ansie e timori che sono proprie della femminilità. La protagonista arriva a mettere in discussione la sua sanità mentale, a rimettersi in gioco continuamente per raggiungere lo scopo tanto agognato di tenere vicino a sé la persona amata costruendo per lei un contesto di libertà e sicurezza, spesso a discapito della verità o della spontaneità. Il film non è perfetto ma cerca di parlare di aspetti critici delle relazioni che sono fondamentali per gettare le basi per un rapporto duraturo, usando il registro del film mistery nelle sue scelte di regia.

La proiezione di questo film è stata anticipata da due cortometraggi prodotti all’interno del progetto Miu Miu Women’s Tale, diretti da Małgorzata Szumowska e da Mati Diop, due progetti che ruotano intorno al concetto di isolamento attuale a causa dell’epidemia da Covid-19. Le due registe, in lavori di pochi minuti, hanno dimostrato di avere uno sguardo preciso e una visione estetica dirompente, producendo due lavori opposti e affascinanti. In particolare il lavoro di Mati Diop rompe le regole della consequenzialità, riproducendo la sensazione di spaesamento provata in lockdown e insieme la spinta a realizzare qualcosa mettendo alla prova la propria creatività in un contesto chiuso. Il film svela i processi dietro la creazione, recupera un patrimonio sedimentato in attesa di essere portato alla luce, sfida velatamente le regole della produzione e al tempo stesso si sofferma sulla magia dei momenti quotidiani, nell’osservazione del mondo dalla finestra della propria stanza. 

Arriviamo così al vero gioiellino tra i film del concorso visti finora, Never Gonna Snow Again di Małgorzata Szumowska, già citata tra le autrici dei corti. Abbandonando subito ogni pretesa di realismo la regista ci proietta in un quartiere altolocato della Polonia di oggi, dove un immigrato russo usa dei misteriosi poteri cinetici (direttamente ereditati da Tarkovsky) per curare la cinica comunità di ultra ricchi. Passando di casa in casa, il silenzioso protagonista registra il malessere che permea queste case e diventa l’elemento di salvezza di questa comunità, che per questo lo accoglie e al tempo stesso lo sfrutta, in attesa dell’arrivo della neve quale elemento catartico e di purificazione del quartiere. Il film è surreale nei toni e nelle ambientazioni, ricche di colori e stravaganza che concorrono a creare un’idea estetica coerente, efficace ed unica. Un’opera che spiazza ma porta anche a numerosi livelli di riflessione: si parla di Chernobyl e radioattività, di telecinesi e lutto, di ipnosi e ricerca della felicità oltre le apparenze. 

Finalmente ho visto una svolta in questa mostra, nel concorso e per mano di una regista.

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