Venezia 76 #8: storie passate e presenti

L’ottava giornata è cominciata con Saturday Fiction di Lou Ye, ambientato nel 1941 a Shanghai durante l’occupazione giapponese e nei giorni che hanno preceduto l’attacco a Pearl Harbor. Il contesto storico è solo lo sfondo poiché la vicenda di spionaggio e amore ruota intorno ad una famosa attrice e allo spettacolo teatrale che sta preparando con il suo amante, un’attività di facciata mentre si appresta ad estorcere dei segreti militari ad un generale giapponese. Girato con un bianco e nero molto compatto e profondo, il film pulsa come un cuore in preda ad un delirio d’amore. Quasi la maggior parte delle riprese sono state realizzate con la macchina a mano con una grande maestria e si concentrano sugli attori. Sono rarissime le inquadrature ampie perché il focus non è sul caos della realtà ma sui singoli individui, trattati tutti in modo uguale. Altro pregio è il modo in cui gioca con realtà e finzione facendo scivolare lo spettatore tra la rappresentazione teatrale e la vicenda del film, confondendo e facendoci riflettere spesso se stiamo assistendo alla pièce teatrale o alla storia dei personaggi. Ancora una volta il cinema orientale ci insegna in modo sublime che non tutto può e deve essere chiaro ed esplicito. La confusione c’è, esiste nel cinema perché esiste nella realtà e dobbiamo imparare ad accettarla. 

Babyteeth è l’opera prima della regista teatrale Shannon Murphy, di origine australiana. La protagonista Milla non è solo una adolescente ribelle, ma è anche affetta da un cancro. Per questo i genitori, uno psichiatra e una sua paziente, cercano di ridisegnare i confini delle regole, nel tentativo di regalarle tutte le gioie possibili in vista dell’inevitabile. L’equilibrio è messo in crisi dall’ingresso di Moses, un ragazzo tossicodipendente per cui Milla si è presa una cotta. La tensione invece di diventare insostenibile penzola tra momenti di rabbia e di quiete, così come il film scorre alternando scene emotivamente cariche a lunghe pause. Si può ben percepire che si tratta di un’opera prima: è evidente una ricerca nella composizione, nella messa in scena e l’uso delle musiche, ma il film non si distingue. Alcune soluzioni trovate per propugnare un senso di originalità risultano in realtà noiose per quest’opera che rientra a pieno titolo in quelli che definiamo “Sundance Movies”. 

Colectiv è invece l’opera coraggiosa del regista rumeno Alexander Nanau, presentata Fuori Concorso. La storia comincia nel 2015 quando nel locale Colectiv di Budapest divampó un incendio che uccise numerosi giovani presenti per un concerto, perché privo di uscite di sicurezza. Da questo incidente si creò una polemica che portò dopo poco alla caduta del governo. Come? Risultò che tra i più di cento feriti gravi 37 morirono nei mesi successivi all’incendio, non solo a causa delle ustioni ma perché le lesioni non furono trattare correttamente, provocando infezioni nei pazienti. Lo scandalo sulla mala sanità in Romania invase i media, con rivelazioni sempre più scioccanti, se pensiamo che provengono da anni recenti. Disinfettanti diluiti, medici corrotti, mazzette per l’utilizzo di sale operatorie, fenomeni di corruzione a livelli sempre più alti, tali da aver creato un sistema basato su tutto tranne che sulla cura del paziente. Il film procede con passo serrato, senza piegarsi di fronte alla catena sempre più allucinante di problemi, e analizza ogni singola fase, in una discesa agli inferi senza più ritorno. Un lavoro dalla regia invisibile, che mimetizza il suo sguardo tra quello di vittime e indagatori, cercando di riportare un dramma vero, attuale, e già dimenticato. Mentre lo guardavo pensavo a come anche in Italia ci sono stati casi recenti sia di locali non a norma dove qualcuno ha rischiato di morire sia di mala sanità, anche da noi con casi preoccupanti. Film così possono aiutarci a prevedere la conseguenze di un sistema lasciato senza controllo. 

Gloria Mundi è un altro dei ventuno film in concorso di quest’anno, firmato Guédiguian, che fu già presente in competizione con Une ville due edizioni fa. Famiglie atipiche tornano anche qui, l’arrivo della piccola Gloria è solo una ragione per provare a rimetterle in piedi. Il film si svolge in un accurato ritratto della società occidentale moderna, contratta tra ingiustizie sul lavoro, immigrazione, spettro della super sicurezza e precarietà. Tutti elementi che influiscono sulla stabilità familiare in maniera sottile, alimentando le dinamiche narrative come una brace silente. Tra tutti i contrasti e le tensioni dei protagonisti emerge quella che lega la madre all’ex marito appena uscito di prigione, che, dopo aver passato tutta la vita lontano, deve decidere se rientrare a contatto con la figlia e il secondo marito. Un legame tenero e complesso, che meritava da solo un film tutto per sé. Questo film è una visione appagante e che riserva anche qualche colpo di scena, ma non credo sia un lavoro che può conquistare premi in questa annata così ricca di opere differenti. 

In chiusura abbiamo visto anche l’atteso documentario Chiara Ferragni – Unposted che racconta la più importante imprenditrice mediatica e influencer italiana. Chi dice che che questo lavoro non è adatto ad essere presentato alla Mostra del Cinema sbaglia. Al festival tutti ci aspettiamo di vedere e festeggiare opere d’autore e di personaggi di rilievo, anche se meno noti, dell’industria cinematografica. Questa è sempre anche la nostra speranza, ma dobbiamo riconoscere che la Biennale Cinema non è solo questo. È anche un grande evento, una mostra, una festa che intorno al cinema vive di personaggi ed eventi che magari non sono del mondo del cinema ma di quello della moda e di tutto quello che gli sta intorno. Il lavoro di Elisa Amoruso su Chiara Ferragni è un documentario che forse non eccelle dal punto di vista artistico, ma si regge bene in piedi e racconta in modo molto pop e fashion, com’è giusto che sia, la vita della Ferragni. È molto interessante poi per la scelta di non concentrarsi solo su di lei come singolo individuo ma di approfondire anche tutto il mondo della moda, del cosa vuol dire essere influencer e del ruolo dei Social Network al giorno d’oggi. Si può non apprezzarla ma è impossibile negare l’importanza del suo ruolo nell’inizio del mondo digitale e di quello che ha creato intorno a sé stessa.

Ormai manca pochissimo alla resa dei conti e quest’anno siamo davvero curiose di vedere che scelte prenderà la giuria!

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