Velvet Buzzsaw: tanta superficie, poca profondità

Velvet Buzzsaw è il nuovo film diretto e scritto da Dan Gilroy, regista noto per il suo ottimo esordio Nightcrawler. Pubblicato su Netflix il 1 febbraio si tratta di un’opera con un gran cast, da Jake Gyllenhaal a John Malkovich, da Rene Russo a Toni Colette, fino a Natalia Dyer (famosa per il ruolo di Nancy in Stranger Things).

In potenza il soggetto del film è molto interessante. Ambientato nel mondo dell’arte contemporanea, parla di uno “spirito” maligno che esce dalle opere di un artista oscuro e prende di mira le persone che guadagnano spropositatamente dalla vendita dei suoi lavori, uccidendole. L’artista, Vetrli Dease, era un anziano morto in totale solitudine, le cui opere vengono trovate da Josephina, gallerista, ed esposte senza rispettare il volere dell’artista che le voleva distrutte.  

Nonostante le buone potenzialità del soggetto gli spunti e le riflessioni vengono tutti gettati, come degli ami che galleggiano sulla superficie dell’acqua, senza riuscire a trovare il peso e la qualità per andare in profondità.

Sarebbe stato molto interessante usare e approfondire bene la figura dell’artista dal passato molto cruento e dargli un ruolo ancora più centrale. Il fatto che nelle sue opere fosse presente sangue, usato insieme al colore, è un elemento psicologico e di criminologia molto interessante, ma, se buttato lì in una semplice battuta superficiale, non acquista il vero interesse che avrebbe potuto suscitare. Ed è così con ogni elemento che gira intorno alla figura di Dease. Perchè questo spirito si vendica in quel modo? Qual’è davvero l’elemento scatenante che porta a questo male e allo spirito vendicativo? Un padre molto violento non è una giustificazione sufficiente.

Non si capisce bene se questo film vuole essere una caricatura sui galleristi e sull’arte contemporanea o un film horror ambientato in quel mondo. Rimane in bilico tra questi due universi e il modo in cui li fa combaciare funziona dal punto di vista registico, con un gioco di stili diversi che non essendo portati all’estremo riescono a convivere bene insieme, ma non funziona dal punto di vista della sceneggiatura.

La storia gioca su classici escamotage dell’horror, diventando in alcuni punti anche scontata. Quando viene mostrato il tatuaggio di Rhodora, l’inquadratura urla da ogni suo pixel: “Hey guardami, guardami bene. Magari adesso ti starai chiedendo che senso ho. Ma poi torno eh, e il senso lo trovo.” Ed è così che quando poi il tatuaggio torna scatta subito nella mente dello spettatore l’immagine di quello che sta per succedere.

Come detto sopra, ogni tema viene lasciato in superficie e nel pasticcio di personaggi nessuno trova delle vere caratteristiche di rilievo. Il personaggio dell’assistente, ad esempio, è del tutto inutile. È tragicomico in modo fastidioso e risulta fuori luogo. Nelle scene in cui compare non si capisce bene se ridere, provare pietà per lei o se sbuffare spazientiti per la sua inutilità.

Oltre alla regia, funziona molto bene la recitazione di tutto il cast. Le abilità degli attori infatti nascondono la povertà della sceneggiatura. Primo fra tutti Jake Gyllenhaal, che splende nel ruolo di Morf Vandewalt, rinomato critico d’arte.

Nel suo complesso si tratta comunque di un film interessante, che vale senza dubbio la pena di vedere. Anche se non brilla di genialità lascia degli ottimi spunti di riflessioni e conferma le capacità registiche di Dan Gilroy, di cui seguiremo la filmografia con molta curiosità.

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