Dopo aver parlato di Viale del tramonto e Ordet nell’articolo Parte 1, qui approfondiamo gli altri tre titoli scelti da Verdone come Guest Director di TFF37. Questi titoli così diversi sono stati descritti da lui come cinque emozioni che Verdone vuole invitarci a rivivere al cinema.
Divorzio all’italiana (1961)

Due carabinieri in attesa davanti al bagno di uno scompartimento ferroviario. Da quella porta esce un uomo distinto, coi capelli gellati e i baffi scurissimi. Questi attraversa l’intero corridoio fino al vagone ristorante e si siede. Ordina l’aperitivo. Guarda fuori dal finestrino. Campo/controcampo col paesaggio che scorre. Voce narrante: «Le serenate del sud… le calde, dolci, snervanti notti di Sicilia… durante tutto il tempo che ne ero stato lontano, il ricordo di quelle notti, o meglio, di una notte aveva popolato le mie ore di rimpianti… di nostalgia». Nel frattempo, una dissolvenza incrociata sfuma l’immagine da un carrello sfrecciante in una panoramica nello stesso verso sul paese di Agramonte. E così, in soli tre minuti, Divorzio all’italiana è entrato nel vivo. Ecco che il racconto del barone di Cefalù si fa inarrestabile: i disoccupati in aumento, i comunisti che ballano, il prete che fa propaganda, e poi la moglie Rosalia, i suoi baffetti, i debiti di famiglia e a seguire la cugina Angela. «Io amavo Angela», conclude Fefè. Passaggio a nero. Ed è già un capolavoro. Infatti, la capacità di espressione e sintesi della regia di Pietro Germi è davvero tutta in questa sequenza. Basterebbe mostrarla in un’accademia e anche il meno sveglio degli allievi capirebbe di trovarsi di fronte a uno dei migliori incipit della storia del cinema. Sì, non solo di quello italiano.
Il film si aggiudicò l’Oscar alla Miglior Sceneggiatura originale nel 1963, edizione in cui concorsero a questo premio Come in uno specchio, scritto e diretto da Ingmar Bergman, e L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, ma scritto da Alain Robbe-Grillet. Mentre l’anno prima era stato presentato al Festival di Cannes, dove si aggiudicò il riconoscimento come miglior commedia. Infatti, nonostante nelle intenzioni del regista dovesse essere l’ennesimo dramma sociale, gli sceneggiatori Ennio De Concini e Alfredo Giannetti insistettero per scrivere una farsa che mettesse finalmente alla berlina le disposizioni di legge sul delitto d’onore presenti nel codice penale dell’epoca (e abrogate solamente nel 1981). Con Divorzio all’italiana Germi salta quindi dai toni più melodrammatici dei film precedenti alla satira. Nessuno però voleva produrre questo strano film, finché Franco Cristaldi si decise e riuscì con non pochi problemi a realizzarlo dalle parti di Ragusa. Il successo fu tale che proprio parafrasandone il titolo venne coniata la denominazione “commedia all’italiana”, caratterizzante gran parte della produzione italiana degli anni Sessanta e Settanta. A tutti gli effetti, la madre della commedia moderna nostrana. La boa da cui non si tornò più indietro.
Alessandro Amato
Oltre il giardino (Being There, 1979)

“Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire…”
Jorge Luis Borges
Dopo un decennio di carriera al montaggio, Hal Ashby intraprende la strada della regia nel 1970 e firma, prima di Oltre il giardino (Being There, 1979), alcune pellicole di successo e interesse come Harold e Maude (1971), Shampoo (1975) e Tornando a casa (Coming Home, 1978).
Tratto dal romanzo “Being There” di Jerzy Kosinski, Oltre il giardino è la storia di un uomo di mezza età che ha passato la vita a fare il giardiniere nella ricca proprietà del filantropo che l’ha allevato. Vissuto sempre entro i confini della proprietà, la televisione come unico ponte per il mondo (dai concerti di musica classica, come quello della Sinfonia incompiuta di Schubert che apre il film, ai cartoni animati, ai programmi di varietà) si ritrova, alla morte del suo benefattore, a essere sfrattato da casa e catapultato nel mondo reale. In giacca, cravatta e bombetta, uscito da un quadro surrealista di Magritte, vaga senza meta per la città di Washington immerso in una luce azzurra e invernale. Si rivolge ai passanti con toni impostati da maggiordomo, suscitando così gli sfottò di un gruppo di teppistelli (credendoli personaggi d’un programma televisivo, estrae il telecomando e prova a cambiare canale, in una delle scene più agrodolci e divertenti del film) e l’ammirazione di chi lo crede, vedendolo aggirarsi abbigliato di tutto punto nei pressi della Casa Bianca, un qualche rispettabile uomo politico.
Non c’è, in questo film, metafora che non sia spiattellata in modo evidente. È chiaro che ci troviamo in un mondo in cui, avendo davanti un uomo che afferma di lavorare come giardiniere in uno stabile nobiliare e un pezzo di carta che dice che quell’uomo, in quel giardino, non ci ha mai lavorato, si preferisce credere al pezzo di carta. È chiaro che in questo stesso mondo una persona è creduta più o meno degna di considerazione in base al taglio dell’abito che indossa, alla ricercatezza delle frasi che pronuncia, poco importa se questa raffinatezza è in realtà il frutto di un malinteso.
È chiaro anche che il mondo in cui si muove Chance (Peter Sellers) il giardiniere è del tutto simile al nostro, o quantomeno al mondo quale si presentava ai nostri occhi nel 1979, in cui era la televisione a fornire modelli di vita e di linguaggio e in cui un analfabeta,capace di vendersi bene, poteva arrivare ai vertici del sistema.
Non sentiamo, guardando questo film, di essere in presenza di una scottante rivelazione. È divertente, molto, ma l’apologo morale del puro di cuore vinto da una società gretta e materialista non è niente di nuovo, né lo era quando il film uscì. Tutto ci appare fin troppo semplice, compresa la chiave di lettura politica.
Ma non è forse giusto che la parabola d’un uomo rimasto bambino la si racconti in modo semplice, schiettamente, come la si racconterebbe a un bambino?
Essendo il messaggio così palese, così già acquisito, l’immagine è libera di vagare dove meglio crede, di soffermarsi sulla costruzione di questo personaggio incredibile (e non sulla costruzione della metafora). Oppure di indugiare a lungo sul volto nudo e indifeso di Peter Sellers, per esempio, sui micro-movimenti degli occhi e della bocca che rompono la fissità di una maschera di cera sigillata nel silenzio d’un mondo immaginario.
La forza del film, più che nella dirompenza di una affilata satira politica, sta nella ricchezza della recitazione di Sellers, della cara e splendida Shirley MacLaine (che nel film è Eve, ricca compagna d’un uomo politico) e del di lei marito, interpretato con commovente forza metanarrativa dalla vecchia stella hollywoodiana Melvyn Douglas. Questa forza si trova anche nelle capacità di una regia sapiente, che crea attorno ai personaggi un’atmosfera e uno spazio d’espressione sempre coerenti, lasciandoli emergere in tutta la loro abilità.
Oltre il giardino, in definitiva, è un trattato di storia della televisione americana e una miniera incredibile di citazioni, è una commedia ben calibrata, una satira ben diretta, il palcoscenico perfetto di una compagnia di attori incredibili,ma è prima di tutto la storia d’un uomo semplice e per questo libero, privo di false idee, privo di tutte le assurde complicazioni dello spirito che attanagliano le persone che lo circondano, capace di coltivare il suo giardino e di contemplare, in quello scarto di mondo, tutta la bellezza possibile. E tuttalpiù, se quel mondo non gli piace, può sempre cambiare canale.
Chiara Varese
Buon Compleanno Mr. Grape (What’s Eating Gilbert Grape, 1993)

Buon Compleanno Mr. Grape (What’s Eating Gilbert Grape, 1993) è uno di quelli che potremmo definire classici degli anni Novanta. E’ stato diretto da Lasse Hallström, noto anche per Chocolat e Le regole della casa del sidro, e scritto da Peter Hedges adattando il suo romanzo omonimo. È entrato nella memoria collettiva in particolare per le interpretazioni di Johnny Depp e di Leonardo DiCaprio, qui in uno dei due film del 1993 con cui ha esordito (l’altro è This Boy’s Life), e chi gli è valso la sua prima nomination agli Academy Awards come Miglior Attore Non Protagonista.
La vicenda ruota intorno alla famiglia Grape e alle varie situazioni problematiche che la riguardano. Dall’obesità e la reclusione della madre Bonnie causate dal suicidio del marito, fino all’autismo di Arnie (Leonardo DiCaprio), malattia che doveva costargli la vita in giovane età, e invece lo incontriamo a inizio film mentre si appresta a compiere 18 anni. Gli altri membri della famiglia, Gilbert e le due sorelle Amy e Ellen, cercano di tenere insieme i pezzi ma vengono costantemente messi a confronto con la dura realtà. In particolare il film si concentra su Gilbert (Johnny Depp), e al modo in cui vive la sua quotidianità con una sorta di semplice sconforto e totale accettazione. L’elemento che sconvolge questa sua passività è l’arrivo di Becky, una ragazza che viene da fuori e che ha viaggiato per tutto il mondo.
Il film si svolge attraverso una serie di eventi che portano alla festa di compleanno di Arnie, giocando sulla parola chiave della semplicità. Non c’è niente di eccessivo, niente di esagerato, ogni sentimento viene espresso nel modo più naturale e spontaneo possibile. Ed è proprio questa umanità a catturare lo spettatore, che può empatizzare con altrettanta spontaneità con tutti i personaggi. Dal dolore della madre alla sensazione di clausura di Gilbert, dall’innocenza di Arnie al desiderio di ingrandire la propria realtà di un personaggio secondario come quello di Tucker, interpretato da John C. Reilly. Una visione che vi lascerà con una sorta di dolce amarezza come un abbraccio pieno di affetto accompagnato da una lacrima.
Il 22 novembre partirà ufficialmente la 37^ edizione del Torino Film Festival, e oltre ai film proposti da Verdone ci aspetta un’ampia selezione di titoli interessanti. Continuate a seguirci per scoprire quali sono e cosa ne pensiamo a riguardo.
Buon festival!