TFF37 – Le cinque emozioni di Verdone – Parte 1

Questo 2019 sembrerebbe essere l’anno di Carlo Verdone. Infatti, dopo l’omaggio a lui dedicato da Presente Italiano a Pistoia, il Torino Film Festival ha annunciato l’attore e regista romano come Guest Director dell’imminente 37^ edizione. A seguito della notizia, non abbiamo fatto in tempo a domandarci quale sarebbe stato il suo apporto concreto alla manifestazione, che la nostra curiosità è stata subito soddisfatta da un ulteriore sviluppo: il cinefilissimo Verdone ha curato la scelta di cinque film d’altri tempi per una sezione speciale intitolata “Cinque grandi emozioni”. Opere molto diverse fra loro e di provenienza varia, legate a fasi della storia del cinema estremamente specifiche, e nonostante ciò capaci di esprimersi col linguaggio universale del sentimento. A partire dallo statunitense Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950) di Billy Wilder fino al nostrano Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi, dal danese Ordet (1955) di Carl Theodor Dreyer allo statunitense Being There (Oltre il giardino, 1979) di Hal Ashby, per arrivare all’inaspettato What’s Eating Gilbert Grape (Buon compleanno Mr. Grape, 1993) di Lasse Hallström, diretto negli USA da un noto regista svedese. I primi tre titoli, per dire un’ovvietà, vengono annoverati fra le migliori pellicole mai realizzate ed è indubbio che chiunque le veda in gioventù finisca col non poterle dimenticare. Mentre gli altri due sono meno scontati e risalgono a epoche in cui Verdone era già in attività, quindi non si può dire che facciano parte della sua formazione in senso stretto. E nel complesso, questa selezione sembra voler essere esaustiva rispetto, più che a un’idea di cinema, a un’idea di mondo. Un mondo in cui è l’altro l’unica occasione per trovare noi stessi. E questa ricerca a volte può essere traumatica come in Viale del tramonto, miracolosa in Ordet, oppure ridicola per Divorzio all’italiana; ma può anche essere triste come in Oltre il giardino o avere la tenerezza di Buon compleanno Mr. Grape. Tutto sta nell’intuire il tono per raccontare quelle emozioni nel modo più efficace per il nostro momento storico. Questi registi ci sono riusciti. Almeno secondo Verdone.

Viale del Tramonto (Sunset Boulevard, 1950)

Il cinema ha cominciato molto presto a riflettere su se stesso. Di fronte al fermento nato da questa macchina capace di creare simultaneamente le immagini dei sogni e un’industria di mercato, subito si è cominciato a riflettere sulla sua natura e i cambiamenti che portava. Viale del Tramonto di Billy Wilder è uno degli esempi più belli di questa autoanalisi che il cinema ha fatto su di sé, e che continua a fare ancora oggi. 
Il film è costruito intorno a un complesso rapporto tra lo sceneggiatore squattrinato Joe e una diva del cinema muto in declino, Norma Desmond, che vive nella falsa convinzione di essere ancora richiesta nel mondo del cinema. Joe acconsente a lavorare per lei alimentando il suo sogno di tornare sul grande schermo, approfittando della sua generosità. Apprende però poco a poco quanto la donna lo stia in realtà manipolando, fino a ritrovarsi dalla posizione dello sfruttare a quella dello sfruttato. Ma la relazione con Norma non è così semplice: nel tempo che hanno trascorso insieme è nata, tra le fessure delle reciproche fragilità, un sentimento dolce e comprensivo, che oscilla però pericolosamente verso il controllo malato. 
Questo film parla in maniera esplicita di uno dei più grandi cambiamenti avvenuti nell’industria, il passaggio al sonoro, e la crisi che provocò soprattutto per gli interpreti (non a caso c’è anche un cameo del re delle comiche Buster Keaton). Ma il film riesce a parlare anche della creazione di un sogno, di un mondo parallelo e inventato, grazie all’unione di più menti, che è esattamente l’essenza del cinema e ciò che lo rende un’arte molto diversa dalla pittura, dalla composizione musicale o dalla danza. Il cinema è un’arte che raccoglie numerose persone votate alla realizzazione del film, che compongono un puzzle dove ogni figura è essenziale e tenendo conto che questa comunità si amplierà agli spettatori, che crederanno al sogno da loro creato. Un complesso sistema di responsabilità, che passano di mano in mano e che rendono concreto un mondo di pura fantasia. Ecco come la tensione di amore e odio tra Norma e Joe, che necessitano entrambi l’uno dell’altro per far si che il loro sogno continui a esistere, parla della complessità di fare il cinema.
Rivedere Viale del Tramonto oggi regala un sacco di spunti interessanti, ed è rimasto attuale poiché il cinema continua a scontrarsi con numerose nuove sfide e contrasti che fanno presagire la sua crisi con allarmante frequenza. Come fu traumatico l’avvento del sonoro lo fu poi l’avvento del colore, della televisione, oggi di internet e delle piattaforme di streaming. Eppure il cinema è ancora qui, è ancora un’arte troppo grande per uno schermo che diventa sempre più piccolo.
Arianna Vietina

Ordet (Ordet – La parola, 1955)

Passando velocemente in rassegna i titoli che il Guest Director Carlo Verdone presenterà all’interno della 37a edizione del Torino Film Festival, la presenza di Ordet di Carl Theodor Dreyer nella cinquina è quella che in un primo momento può suscitare più curiosità e stupore. L’aderenza pressoché totale di Verdone al genere della commedia (per quanto il più possibile intrisa di malinconia) lungo tutta la sua carriera di regista e attore è forse la causa principale di questo apparente sviamento, di questo malinteso che ci porta erroneamente a catalogare un film statuario e complesso come quello di Dreyer come l’oggetto misterioso di una selezione operata da un autore comico. Molto più verosimile è invece immaginare come Verdone, anche per merito del padre Mario, critico e storico del cinema, possa aver scoperto questo titolo in gioventù e non lo abbia più lasciato andare, probabilmente sollecitato da tutti gli interrogativi che questo testo cinematografico ci pone ancora oggi. Presentato alla Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia nel 1955, quello del regista danese non è di certo un film che può lasciare indifferenti e fin dall’anteprima mondiale suscitò delle reazioni del tutto opposte: il pubblico, visibilmente annoiato e spazientito dall’incedere graduale del film e dalle sue disquisizioni esistenziali, lasciò in gran parte la sala; qualche giorno dopo, la giuria espresse invece il proprio parere assegnando al film il Leone D’Oro. Da lì in poi, nel corso degli anni, la critica non ha lesinato elogi all’opera di Dreyer, che si parli dei Cahiers Du Cinéma di André Bazin o degli statunitensi Roger Ebert o Jonathan Rosenbaum, come anche del celebre scritto di Paul Schrader sul cosiddetto transcendental cinema che poneva Dreyer in un ideale trittico ascetico insieme a Robert Bresson e a Yasujiro Ozu.

Nonostante tutto ciò abbia meritatamente consolidato la posizione di questo regista nell’olimpo del cinema, l’opportunità di poter vedere (o rivedere) Ordet in sala a più di 60 anni di distanza andrebbe doverosamente colta, forse anche solo per la necessità di fare esperienza di un cinema così connesso con una dimensione spirituale che lo spettatore odierno ha in parte smarrito. Imperniato così com’è su opposizioni semantiche talmente irriducibili e assolute da risultare sempre e comunque urgenti, Ordet (il danese di “parola”, “verbo”) risulta ancora capace di muoverci intimamente: ci invita ad assecondare i suoi tempi meditabondi, pone in essere una riflessione ricolma di ambivalenze le quali trovano specificazione nei personaggi e negli ambienti. Questi ultimi, riconducibili alla casa dei Borgen in cui si sviluppa quasi tutta la vicenda, agli esterni della stessa abitazione e alla dimora del pastore protestante Peter, sono teatro dello sviluppo di un dramma che si poggia, come detto, su dialettiche insormontabili: luce/ombra, conformismo/devianza, ragione/follia, fede/diniego, in ultimo vita/morte. Fin dall’inizio, la famiglia Borgen, composta dall’anziano patriarca Morten, i tre figli Mikkel, Johannes e Anders, la nuora Inger (moglie di Mikkel) e due piccole nipoti (fra cui Maren), si trova a far fronte a lacerazioni interne che ne minano l’unità. Questa si contestualizza in base alle differenti posizioni esistenziali che ciascun membro occupa: Johannes, in primis, è in preda alla follia e la sua fede lo porta a predicare di essere il nuovo Gesù Cristo; Morten è angosciato dalla situazione del figlio, invoca di continuo l’intervento di un Dio nel quale dice di credere ma che è troppo stanco per pregare; Mikkel si dichiara del tutto privo di fede e soffre per la distanza della figura paterna; Inger, incinta del suo terzo figlio, chiude l’ipotetico quadrato rappresentando la fede più autentica, quella della fiducia che si esprime nei gesti quotidiani, nelle buone azioni disinteressate, nei piccoli miracoli che la vita ci dona e che passano sottotraccia. L’istituzione cattolica (attraverso la figura del parroco) e quella medico-scientifica (mediante il medico) arricchiscono ulteriormente il ventaglio ideologico di un’opera la quale, pur nel drammatico e doloroso avvicendamento di eventi traumatici e gesti caritatevoli, trova comunque il modo di stabilire, in fin dei conti, la propria religiosità e la propria posizione attraverso l’accoglienza dell’atto irrazionale e metafisico: filmando l’atto miracoloso, Dreyer piega la logica in virtù della trascendenza. I cocci vengono ricomposti, l’esistenza riassume i connotati della grazia e della misericordia tramite il riscatto dei deboli e degli esiliati (Maren, Johannes), i quali ancora una volta si dimostrano i più predisposti alla comprensione dei massimi sistemi.
Piero Di Bucchianico

Questi sono i primi due film proposti da Verdone, a breve uscirà la seconda parte in cui vi raccontiamo gli altri tre! Restate con noi!

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