Riflessione sugli autori a Venezia 77

Ogni anno a Venezia si parla soprattutto dei grandi nomi, un elemento di rilievo in tutte le manifestazioni cinematografiche per promuovere la qualità della propria selezione. È importante quindi per un festival avere sia nomi nuovi, giovani su cui puntare nella speranza che il loro successo venga riconosciuto sempre di più, sia autori affermati, che attirino l’attenzione e stimolino il dibattito grazie a una continua dialettica con i loro lavori precedenti. Quest’anno gli autori già affermati presenti in mostra sono comunque tanti nonostante la difficoltà produttive dovute al Covid-19, e guardando diversi di questi lavori si può ragionare nuovamente su cosa significhi essere autore e cosa questi artisti apportano alla crescita dell’arte cinematografica. 

Da un lato mi ha sorpreso Laila in Haifa di Amos Gitai, regista che ho sempre approcciato durante la Mostra in quanto ospite fisso, e che mi é parso un film annoiato e inconcludente, giustificabile nella sua collocazione all’interno del programma solo per la sua lunga amicizia con il festival. Diverso invece é il mio pensiero rispetto a Notturno di Rosi, che si distingue per intensità e ci porta in viaggio nelle zone di conflitto di Siria, Libano, Kurdistan e Iraq negli ultimi anni. Figure che diventano mitiche nei loro gesti quotidiani popolano un passaggio omogeneo, contraddistinto da povertà, paura e lutto, formando un ritratto unico degli ultimi del mondo. Un film che si muove in un silenzio desolante che resta dentro, un’opera permeata dalla precisione di intenti di un osservatore coinvolto. 

Rosi é tra gli italiani presenti quello che per ora si è maggiormente distinto come un autore completo, formato da tanti anni di esperienza e una spiccata sensibilità. 

Autrice completa e in grado di proporre una visione propria e unica è Ann Hui che con il suo Love After Love torna al Lido per ricevere il Leone d’Oro alla carriera. Il film, tratto da un romanzo di Zhang Ailing, è un melodramma d’amore intergenerazionale che dipinge una Hong Kong variopinta e tesa nel cambiamento sociale, che permette comunque la manifestazione di giochi di potere e di coercizione. Le regista, che lavora dagli anni Settanta confrontandosi con i generi più diversi, conquista con la sua padronanza e ricorda al pubblico che il cinema va fatto, non solo pensato e studiato, perché solo così può evolvere. 

Concludo questa carrellata con un documentario atipico titolato Hopper/ Welles: si tratta di due ore di conversazione registrate da Orson Welles mentre dialoga con Dennis Hopper, fresco dell’esperienza di Easy Rider, il suo primo film da regista. Per due ore noi esploriamo il volto e le movenze di un giovane Hopper baldanzoso e allo stesso tempo intimorito dalla presenza di un mito del cinema come Welles, di età più matura. I due si confrontano senza esclusione di colpi riguardo la politica, il montaggio, la ricerca che inseguono con i loro lavori, trovandosi più o meno d’accordo ed esprimendo un sincero desiderio di confronto. Il film è ricchissimo di spunti, informazioni e aneddoti che fanno sorridere. Trasmette lo spirito di un’era in cui le rivoluzioni giovanili stavano scuotendo lo stato sociale, e porta avanti una discussione profonda sul cinema. Ci vorrebbero molti altri film così, che aiutino noi appassionati, ma anche gli studenti di cinema, ad entrare in contatto con l’atmosfera del cinema del passato. Orson Welles decise di filmare questo confronto e ci consegna oggi una testimonianza davvero incredibile, da vedere e rivedere.

Anche negli articoli precedenti abbiamo parlato di diversi autori e della loro capacità di esprimersi con i loro lavori più recenti, in questo dibattito sempre aperto alla ricerca di un film che aggiunga qualcosa alla storia del cinema. 

Leave Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *