Conversazione a cura di Alessandro Amato
«Non so come sia accaduto che da un giorno all’altro io mi sia ritrovato a fare il portabandiera dei detrattori di Sergio Leone». Mi accoglie ridendo, Paolo Mereghetti, nella sua casa di Porta Genova. In occasione dei trent’anni dalla scomparsa del regista romano – e in continuità col percorso di rilettura critica del cinema italiano portato avanti sulle pagine della rivista Maverick per Aiace Torino – mi sono interrogato su un modo originale con cui affrontare una filmografia già così dibattuta. Poi ho trovato per caso il video di una presentazione del suo Dizionario di qualche anno fa – alla presenza niente meno che di Umberto Eco – in cui il celebre critico milanese afferma di non amare C’era una volta in America in barba ai fischi della sala indispettita. Posizione sicuramente provocatoria che mi ha affascinato per la sicurezza della sua esposizione. Volevo saperne di più, così ho preso coraggio e gli ho chiesto un incontro. Ecco cosa ci siamo detti:
Qual è il primo film di Leone che ha visto? Si ricorda la circostanza?
Immagino sia Per un pugno di dollari, e non Il colosso di Rodi, che invece devo aver recuperato successivamente. Non ero un grandissimo fan dei film di Ercole, anche perché uscivano in un periodo in cui avevo 13-14 anni, all’epoca non andavo spesso al cinema e quando ci andavo preferivo vedere altre cose. In realtà è sbagliato dire che non fossi un fan del genere perché due o tre di quei film mi hanno molto colpito, ad esempio Maciste all’inferno mi aveva molto impressionato, ma del Colosso di Rodi, nello specifico, non ho memoria in tempi adolescenziali. Per un pugno di dollari invece me lo ricordo bene, era un western che colpiva certo per il personaggio del pistolero solitario, però, essendo io già allora un discreto consumatore di western, non mi sembra che mi avesse proprio colpito. Mi è piaciuto di più, se devo dire la verità, Per qualche dollaro in più, che mi sembrava un film più appassionante. Il primo capitolo della trilogia aveva il duello fra i due gruppi, con questa specie di rifacimento spurio di Kurosawa (cosa che ovviamente a quell’età non sapevo), però sono abbastanza sicuro che la storia del secondo mi avesse intrigato maggiormente.
Quando era giovane guardava molti western?
Mi piacevano molto, sì.
E lo spaghetti-western come lo ha accolto?
Non benissimo. Se c’è un film che ha segnato la mia giovinezza cinematografica questo è Un dollaro d’onore. La scena della goccia di sangue che cade giù dall’alto mi è rimasta stampata in testa. E poi mi piacevano moltissimo – ma questo più in là, verso la metà degli anni Sessanta, quando sono diventato uno spettatore più attento – i film di Delmer Daves e Anthony Mann, quei western un po’ decadenti. E poi naturalmente la scoperta di Peckinpah con Il mucchio selvaggio.
Proprio Peckinpah affermò che senza i film di Leone non ci sarebbe mai stato il suo…
Questo non lo sapevo, ma a me sembra che Il mucchio selvaggio avesse una carica epica e anche una lucidità politica che Leone non ha mai voluto mettere nel suo cinema.
Forse si riferiva all’uso della violenza e alla libertà di mostrare cose prima inimmaginabili?
Può darsi, questo non lo escludo.
Proprio riguardo la violenza, Leone quanto si è spinto oltre rispetto al cinema coevo?
Evidentemente molto, anche perché è una violenza che a volte diventava quasi sadismo ed è una delle ragioni per cui non amo Leone, nel senso che mi sembra ci sia del compiacimento. Non è necessaria dal punto di vista narrativo ma scelta per far colpo sullo spettatore. Una delle ragioni per cui non penso che Leone sia il genio che tanti dicono è proprio questa: al di là di un certo gusto triviale che non mi ha mai molto convinto (ma questa è una cosa personale), il discorso critico che porto avanti è legato al fatto che lo scopo fosse quello di far colpo sul pubblico più che veramente fare una riflessione sull’evoluzione del western come genere oppure per una necessità narrativa. C’è qualcosa che mi ha sempre lasciato perplesso. È come se i film di Leone andassero avanti per grandi scene, costruite alcune volte magnificamente, ma erano scene che poi saltavano alla seguente senza che ci fosse davvero un percorso narrativo che, allora e anche adesso, mi sembra sia importante.
In seguito Leone ha spiegato che la sua intenzione era stata quella di rivisitare il genere e addirittura ha usato il termine “parodia”. Forse voleva distruggerlo dall’interno?
Mi sembra un po’ ex post… In qualche modo poi l’ha distrutto, in effetti, ma devo dire che preferisco chi quel cinema ha cercato di elaborarlo, di confrontarlo con l’evoluzione della cultura e del pensiero e non chi ha voluto distruggerlo apposta. Perché poi alla fine non ti rimane in mano nulla.
Sto pensando a Giù la testa, dove le pistole lasciano il posto alla dinamite e le ideologie esplodono letteralmente. Secondo Lei, dal punto di vista politico, come si schierava Leone?
È pur vero che quel film si apre con la citazione di Mao e che James Coburn era un rivoluzionario, però mi sembra che la politica fosse l’ultima delle sue preoccupazioni. All’epoca andava di moda Mao e la battuta “La rivoluzione non è un pranzo di gala” potrebbe dirla chiunque e quindi se la metti in un film il divertimento è assicurato. Oltretutto, il personaggio che gli interessa di più è il qualunquista Rod Staiger, perciò penso che si identificasse più con lui… anche se non voglio attribuirgli posizioni politiche. In generale, non mi pare che volesse lanciare discorsi politici.
Magari intendeva riflettere sul presente. Si definiva un anarchico moderato e forse con le immagini cercava di tirare fuori qualcosa che a parole non trovava la forza di esprimere.
Ma cosa tirava fuori nei suoi film? Tirava fuori un mondo brutto, sporco e cattivo, per usare una frase fatta. Se penso a C’era una volta in America, ci sono delle cose che continuano a non piacermi, nel senso che le trovo gratuite. Cerca di rendere liriche ed epiche scene che invece sono oggettivamente triviali, per non dire volgari. Quella del riconoscimento a pantaloni calati è una, e anche lo stupro della McGovern è una scena vista quasi come mitologica, ma resta pur sempre uno stupro.
Però quella scena è senza musica in un film pieno di musica e si conclude con l’autista che rifiuta i soldi di Noodles. Non crede che qui si riveli il giudizio dell’autore?
Può darsi, ma di solito evito di prendere un singolo elemento di un film per valutare l’insieme e il senso generale di C’era una volta in America non mi ha mai molto convinto.
Marianne Koch, l’attrice che interpreta la messicana in Per qualche dollaro in più, disse di aver dovuto leggere il copione due volte prima di capire che non c’era una morale e che tutti i personaggi erano canaglie. Cosa ne pensa?
Ha perfettamente ragione perché a Leone non interessava la mitologia del West, gli interessavano dei tipi che utilizzavano le pistole.
Non è che magari si era reso conto che L’America vista nei film non esisteva?
Certo, però pensiamo che film faceva Peckinpah negli stessi anni. Anche lì non c’è più l’America degli eroi fordiani, però ci sono antieroi che si portano dentro la sofferenza per un mondo che non c’è più e che loro hanno contribuito a distruggere, mentre ai personaggi di Leone non importa nulla.
L’unico interesse sembra essere il denaro e a volte l’impressione è che ci si prenda un po’ gioco di questo loro girovagare ossessivo, non crede?
Non lo so, mi sembra che queste siano tutte riflessioni posteriori di cui a Leone importava poco.
Leone nelle interviste fa spesso riferimento a una “nostalgia ironica” per un certo immaginario e lo trovo interessante perché tutto quel materiale visivo che lui utilizza nei suoi film appartiene a un cinema precedente più che al reale. Si potrebbe parlare di manierismo in senso artistico se stabiliamo che elaborava codici classici infilandoci però all’interno personaggi e situazioni immutabili di cui appunto, a volte, sembra voler un po’ ridere. Mentre altre volte si rivela una sorta di comprensione o pietà nei loro confronti, come accade con Tuco quando dice al fratello: “Da dove veniamo noi si può diventare solo bandito o prete”.
Sì, ma si tratta di una battuta scritta per fare colpo, non ha una pregnanza particolare. Se guardiamo i melodrammi di Emilio Fernández queste cose qui ci sono già e vengono portate all’esplosione più totale. I personaggi di Enamorada sono appunto un rivoluzionario e un prete e c’è questo rapporto omoerotico incredibile di amore e odio, quindi mi sembra che qui si cerchino giustificazioni a cose poco significative. Poi il rischio è sempre quello di costruire il monumento a se stessi. Giusto, perché no? Però i suoi personaggi, rivisti oggi, non hanno spessore. Pensiamo ai film di Anthony Mann, dove certe battute non esistevano perché non servivano per raccontare il dramma interiore. È vero anche che ci stiamo avvicinando al postmoderno. Figurati se Argento e Bertolucci, quando scrivono C’era una volta il West, non ci mettono dentro tutta la loro cultura cinematografica fino infondo, per cui si divertiranno anche a mettere battute a effetto. Però, appunto, sono tutte situazioni che servono per costruire un certo tipo di cinema senza sentimento. Ecco, non c’è il cuore. Mi piace? No, non me piace o presepe. Naturalmente non ce l’ho con Leone in particolare, è l’idea in sé.
Con tutte le premesse del caso, cosa distingue Leone appunto da un Bertolucci nella rappresentazione della sessualità e, più in generale, delle situazioni più triviali?
A mio avviso, le scene di Leone sono messe lì per far colpo. Quando mai uno si fa riconoscere calandosi i pantaloni? In Bertolucci questa gratuità non c’è mai, neanche in Ultimo tango a Parigi...
Ad esempio, i nudi in Novecento per lei sono tutti giustificati? Non c’è mai effettismo?
Secondo me sì, perfino la scena della Casini che masturba contemporaneamente De Niro e Depardieu è spiegata. Certo che è una scena un po’ a effetto, però la situazione sta in piedi perché il ricco e il povero crescono insieme, sono la stessa cosa, condividono tutto e siccome in quel periodo non si andava nei casini allora bisognava cercare l’amica che ti aiutava… In C’era una volta in America, invece, ci sono cose messe lì solo per sorprendere continuamente lo spettatore. Non mi piace questo approccio per lo stesso motivo per cui non amo molto le tarantinate. Sono venuto su con Buñuel e Fritz Lang che mi hanno educato a guardare le cose diversamente.
Non a caso Tarantino si dichiara un leoniano… Un altro elemento importante del cinema di Leone sembra essere l’amicizia virile, il modo in cui viene raccontata l’amicizia fra uomini.
Dove sarebbe questo elemento nella Trilogia del dollaro?
Fra Clint Eastwood e Lee Van Cleef, nel secondo film, c’è una sorta di comprensione…
Comprensione è un conto, ma l’amicizia virile è un’altra! Pensiamo a John Wayne e Dean Martin nel film di Hawks… Non è che ora io voglia smontare qualsiasi cosa, però non c’è proprio paragone.
Tornando alla questione della sessualità, mi sembra che in C’era una volta in America serva anche per unire Max, Noodles e gli altri in un quotidiano collettivo in cui spiccano la perdita della verginità e altri momenti della loro giovinezza focalizzati in un certo modo.
Ma si poteva farlo anche in un altro… Quello che discuto di Leone è il modo con cui racconta certe cose, non che certe cose ci siano o debbano esserci.
Forse, nel raccontare il quotidiano, Leone ha pensato che fosse più interessante rendere “struggente” – ha scritto Lei sul Dizionario – la trivialità piuttosto che mostrarla direttamente. Per il bene dello spettacolo. Non pensa che questa potesse essere la sua intenzione?
Non me la sento di entrare nella testa di Leone [ride]. Più passa il tempo e più penso che bisogna guardare semplicemente le opere perché di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno. È ovvio che nessuno dirà mai di voler fare un brutto film, ma poi il risultato è ben altra cosa.
Di recente mi è capitato di leggere cose, e anch’io ne ho scritte, su Samperi. Mi ha dato l’impressione, rivisto oggi, di essere meno triviale di come era visto all’epoca.
Questo perché noi siamo peggiorati disperatamente! Si è abbassata la soglia…
Paradossalmente sembra aver raggiunto una sorta di romanticismo.
Però hanno rifatto Malizia in televisione tre mesi fa e la scena dell’Antonelli sulla scala mentre pulisce la finestra con il padrone di casa che la scruta è la scena di un guardone… poi ci sarà dietro tutto quello che vogliamo, ma così com’è presentata è la scena di un guardone.
Sicuramente il voyeurismo è al centro del suo cinema, però forse va anche contestualizzato in un epoca in cui ci si apriva a possibilità rappresentative.
Io mi ricorderò sempre di quella volta che ero a Parigi e venni invitato sul set dell’ultimo film di Buñuel. C’era una scena in cui Angela Molina deve offrire una Chartreuse a Michel Piccoli. Lui è seduto in poltrona e lei, la cameriera, si avvicina con questo vassoio e si china leggermente. Ecco, siccome la macchina da presa si trovava di fronte per inquadrare Piccoli, la preoccupazione del regista era che l’inquadratura non mostrasse troppo il sedere. Gli sembrava volgare il fatto che lei chinandosi desse le terga allo spettatore. Si figuri se a Samperi gliene fregava qualcosa della volgarità. Mi spiace, ma io preferisco quel cinema.
È indubbio che partissero da due presupposti umani diversi.
Ecco, io quei presupposti lì non ho voglia di giustificarli, poi quei film sono stati fatti e vabbè. Damiano gira Gola profonda e uno cerca di giudicarlo per quello che è, però io sono venuto su con quell’altro tipo di cinema. Grazie, non mi interessa. Preferisco Quell’oscuro oggetto del desiderio.
Secondo me l’interesse di un cinema come quelli di Samperi, oggi, rivisto con l’occhio dello storico, è il fatto che non fosse pornografia, perché riusciva a trattenere ogni sorta di compiacimento, però al tempo stesso aveva questa necessità di esprimere il desiderio.
Io avrei qualche dubbio sul termine “necessità”. Voleva mostrare delle cose, ma la necessità risiede altrove. Comunque non vorrei addentrarmi troppo [ride]. Come diceva Pasolini: sono un uomo del Medioevo.
A proposito, Umberto Eco scrisse riguardo Leone che questi sembrava voler fare col western ciò che aveva fatto Ariosto col Medioevo. Se la ricorda?
No, questa cosa non l’aveva mai sentita.
Pensava che Leone avesse fatto una lettura di nostalgica ironia della mitologia western simile a quella dell’Ariosto con l’immagine della cavalleria medievale.
Di nuovo, secondo me non c’è la nostalgica ironia in Leone. La troviamo in Butch Cassidy e Sundance Kid, nel modo in cui si racconta la fine di un mondo. Poi bello o brutto non mi interessa, ma appunto se c’è in Ariosto invece per Leone ho qualche dubbio. Quanto alla critica, Leone è stato rovinato dal suo straordinario successo, percui improvvisamente tutti si sono sentiti in dovere di giustificare qualsiasi cosa. Benissimo! Se volete sì, non mi interessa. Non sono un fan dello stracult e continuo a preferire un altro tipo di cinema… poi liberissimo ognuno di fare quello che vuole.
L’unico film sul quale mi soffermerei è C’era una volta in America. Nel suo Dizionario leggiamo: “Sei sceneggiatori non sono stati in grado di scrivere un solo personaggio coerente”.
Non l’ho rivisto di recente, ma quando ne scrissi mi sembrava che non avessero sempre un comportamento consequenziale, che a un certo momento si perdesse un po’ il filo delle intenzioni.
Invece, per quanto riguarda “l’aridità di sentimento” nel cinema di Leone, fa riferimento alla mancanza di tono melodrammatico oppure a qualcos’altro?
Non è tanto la mancanza di melodramma, perché uno è libero di non farlo, ma secondo me i suoi personaggi tengono a freno il cuore in nome di un arrivismo bieco, di una voglia di sopraffazione.
Ho avuto l’impressione che la pietas si muova sempre in parallelo con uno scopo più utilitaristico, spesso riuscendo a coesistere. Ad esempio, ne Il buono, il brutto e il cattivo, per poter attraversare il fiume ed arrivare all’oro, Biondo e Tuco devono far esplodere il ponte per costringere i soldati a spostarsi e improvvisamente il loro obiettivo diventa anche il desiderio di un ufficiale disilluso che in punto di morte vorrebbe veder saltare quel maledetto ponte. Quando poi il Biondo mette le cariche pensa quindi anche all’ufficiale. Si crea questo strano momento in cui due personaggi, pur nell’ambiguità morale della situazione, sembrano legati.
Non le sembra che queste siano abili strutture di sceneggiatura?
Lo sono, però mi piacerebbe capire con lei se sono scelte di scrittura obbligate oppure se Leone effettivamente volesse cercare, in mezzo alla giungla, una forma di umanità.
Posso dire che mi sembra che questo tipo di critica sia un po’ cercare il pelo nell’uovo? Non sono pronto a fare un’analisi scena per scena, ma posso affermare con sicurezza che i film di Leone hanno sceneggiature fatte per conquistare lo spettatore. Questo è fuori discussione. Non era l’ultimo degli stupidi e anzi le sceneggiature che scriveva con Donati e Vincenzoni stavano perfettamente in piedi. Quindi queste cose mi sembrano più che altro abili trovate, per non dire trucchi, ecco. Ma non è che ci siano grandi riflessioni… quando dico che in un film di Anthony Mann queste cose non ci sarebbero mai state, è perché lì quelle cose – l’amicizia virile, il sentimento, il rispetto, la disperazione – venivano fuori non perché erano dette e sottolineate ma perché il complesso del film faceva riflettere su queste cose. Invece quello di Leone è un cinema per un pubblico distratto, che prima aveva seguito le avventure di Ercole e dopo avrebbe guardato Edwige Fenech sotto la doccia. E quindi un cinema che aveva bisogno – giustamente, mica ne faccio una colpa – di sottolineare le cose. Come fa Tarantino! Un film di Tarantino sono 2500 manifesti messi insieme, esagerando. E qui lo stesso. Si diverte lui, probabilmente, a mettere i manifesti perché delle volte cita e ruba da qui e da là. Sicuramente Leone e i suoi collaboratori conoscevano il cinema e sapevano come costruirlo e si divertivano. Preferisco Il covo dei contrabbandieri di Fritz Lang, dove le stesse cose – più o meno – sono fatte intuire, sono lasciate alla scoperta dello spettatore. Lang racconta una storia e dietro ci mette altro. Mentre l’eccesso di evidenza è un modo di fare cinema che mi piace meno.
Lo direbbe un cinema meno colto? Più diretto?
Più semplice, sicuramente meno sfumato. Preferisco un cinema che mi lascia più libertà di fare i conti con quello che vuol dire piuttosto che uno che mi mette lì la morale già bella che scritta. Ci sono delle battute nei film di Leone che mi danno fastidio. Claudia Cardinale che dopo lo stupro dice più o meno “Con un po’ di acqua passa tutto” mi da fastidio! Non mi piace. Preferisco altro.
Lì c’è un po’ la mitologia della prostituta che non deve voltarsi indietro. Non la convince?
Non è che non mi convince, proprio non mi piace. Se devo rivedere un film, rivedo un’altra cosa.
Chiudendo con C’era una volta in America, il fatto che Leone abbia affidato a persone diverse la scrittura di sequenze diverse, in 13 anni di lavorazione, potrebbe aver causato quella frammentarietà di scrittura e quella incoerenza di cui si parlava prima?
Può darsi, poi alla fine questo film ha voluto girarlo a tutti i costi perché lo ossessionava e immagino che a un certo punto lui si sentisse costretto a superare se stesso e probabilmente sentiva di dover dimostrare qualcosa al suo pubblico. Quando poi si comincia un’operazione di questo tipo e si va sempre crescendo come con L’assedio di Leningrado, che non ha fatto in tempo a realizzare, alla fine si rischia di fare delle cose non completamente riuscite. Certo, ci sono delle immagini molto belle, come De Niro e la McGovern sulla spiaggia dell’Excelsior, che ti rimangono in testa. Altre volte però sembra prendersi troppo sul serio. Forse era troppo ambizioso. Non saprei dirlo.
A mio avviso, la parte più interessante della sua scheda sul film è quando si dice che vorrebbe essere un romanzo di Proust. Infatti colpisce come da un progetto così ambizioso e travagliato, da 300 pagine di trattamento e una sceneggiatura continuamente rimaneggiata, poi Leone sia riuscito a tirar fuori al montaggio un’opera tutto sommato coesa e sensata.
Certo, Leone non era mica un dilettante. Il fatto è che molti tendono ad accettare un modo di raccontare non così fluido come quello con cui io sono cresciuto e che ancora cerco nel contemporaneo. Indubbiamente preferisco la classicità al postmoderno, e questo si ripercuote sul mio giudizio. La stessa Trilogia del Dollaro scorreva meglio rispetto a questo ultimo film. Ad esempio, come mai James Woods ricompare nel finale ricco e affermato? Forse perché è stato un bandito più coerente di De Niro?
Perché è stato più furbo di lui!
Sicuramente! [ride] Ma all’inizio non mi aveva dato questa impressione, mi sembrava solamente più irruento. Il film non mi da elementi per comprendere il percorso del personaggio e io deduco queste cose solamente dal fatto compiuto. Ma una domanda gliela faccio io: perché tutta questa ammirazione per Leone e non per Dreyer, per Camerini o per Marcel Carné? Alla fine, la cosa che da fastidio è pensare che in una storia del cinema in cui ci sono miliardi di capolavori da scoprire – pensi a quando si guarda per la prima volta un Sjöström e si rimane a bocca aperta – l’unico problema è che bisogna sostenere che Leone è un genio. Ok, va bene, ma vorrei che a questa domanda mi rispondesse qualcuno. Nel mio dizionario ci sono molte altre schede da contestare. Proprio in questi giorni ne ho riguardate alcune su Bellocchio e devo rifarle perché non sono adeguate. Però mi sembrano delle sottovalutazioni molto più gravi rispetto a un aggettivo su Leone.
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