L’articolo relativo a Rosemary’s Baby, uscito due mesi fa, è nato sull’onda della visione di questo film. Volevo parlare del tema delle possessioni, ma sentivo che non potevo prescindere dal toccare alcuni storici importanti prima di arrivare a The Wailing. Quindi dopo aver rivisto Rosemary’s Baby e L’Esorcista arrivo oggi alla riflessione su un terzo film che dialoga con loro nel 2016. The Wailing di Na Hong-jin è un film recente, prodotto in Corea del Sud e presentato Fuori Concorso all’69^ edizione del festival di Cannes.
Il film ha per protagonista una tranquilla cittadina dove improvvisamente avvengono una serie di omicidi-suicidi violenti e inspiegabili. Intere famiglie vengono trucidate da uno dei componenti, che o si toglie la vita o entra in uno stato di isteria. La polizia locale, abituata all’ozio che aveva contraddistinto il paese fino al giorno prima, è del tutto impreparata a questa esplosione di orrore. Il personaggio del protagonista è la rappresentazione di questa sfida, e si adopererà sempre di più per trovare una soluzione a questa follia, soprattutto quando sarà sua figlia a riscontrare degli strani sintomi…

Perché voglio parlare di questo film?
Al di là della mia propensione per il cinema coreano, questo film mi aveva incuriosita soprattutto perchè ne avevo sentito lodare la struttura da parte di persone molto più esperte di me in materia di sceneggiatura. Poiché il film dura due ore e trentasei minuti trovavo curiosa questa affermazione. Ho visto il film, e subito mi è sembrato lampante che fosse scritto in una maniera molto diversa dal solito. Dato che vorrei metterlo in relazione con i due di cui ho precedentemente parlato, comincio con il dire che anche questi avevano una durata considerevole: due ore e tredici minuti L’Esorcista e due ore e diciassette minuti Rosemary’s Baby. Si tratta però di due film realizzati tra anni ‘60 e ‘70, quando c’era una concezione diversa del dinamismo dell’immagine e dello scorrere del tempo filmico.
The Wailing invece è pienamente figlio degli anni dieci del 2000, momento in cui la velocità è un elemento fondamentale. Il film infatti sembra correre, scaraventandoci a contatto con delle immagini impressionanti. Non solo: quando non ci troviamo in una sequenza truce o di suspance, siamo sottoposti a un fiume di informazioni, supposizioni e credenze popolari che ci sommergono. È piuttosto evidente sin da subito che abbiamo a che fare con possessioni demoniache, perché abbiamo già visto altri film, altre rappresentazioni che ci dicono cosa indica una possessione. Siamo portati a credere che invece i personaggi non ne hanno idea e cercano la ragione di questi comportamenti atipici, trasformando il film in un mistery. Siamo di fronte a un ibrido tra il giallo e il thriller psicologico, che mantiene però delle tinte horror parecchio scure. Vi basteranno i primi cinque minuti per capire di cosa parlo.
Questo film mi ha affascinata per l’idea dell’incontro tra il demone della tradizione cristiana e la cultura tradizionale coreana, che si fondono creando per lo spettatore occidentale un fascino esotico che risulta comunque comprensibile. E’ quasi un ponte tra due culture, anche visivamente, poiché usa colori e messa in scena molto occidentali dando però uno spazio importante a tutti gli interpreti rigorosamente orientali. Questa ibridazione tra le due culture esiste, oltre che sul piano narrativo e su quello della messa in scena, anche a livello simbolico. Per esempio l’uomo che viene considerato responsabile di questa “epidemia” di possessioni non a caso è un giapponese che vive fuori dal villaggio: la Corea è stata a lungo colonizzata dal Giappone, quindi è naturale che il personaggio identificato come il male provenga da lì.

Tornando alla struttura narrativa, The Wailing comincia con una infilata di sequenze che a ritmo incalzante ci mostrano i corpi, l’orrore, l’incapacità della polizia di affrontare il problema, nonché diversi dettagli sulla vita privata del nostro protagonista: è sposato,ha una amante, una bambina, e vive con loro anche l’anziana madre di lui. Ma il ritmo è reso ancora più caotico dall’inserimento di altri punti di vista. Prima di definire Kwak Do-won come protagonista, noi vediamo altri personaggi introdurre una loro esperienza.
Dopo questa prima fase, coincidente circa alla prima mezz’ora, lo svolgimento rallenta. Ci permette di sedimentare le informazioni, di raccogliere i dati e le contraddizioni, che ovviamente sono ancora criptici. Qui i vari personaggi prendono più spazio, così come le loro azioni. La parte centrale del film ha un ritmo più rilassato, anche se continua ad essere ritmato dal giusto contrappunto di alcune scene drammaticamente horror, tra cui una morte all’ospedale, particolarmente cruda, e il crescendo di pazzia che assale la dolce figlia di Kwak Do-won, l’attrice Kim Hwan-hee, che opera una trasformazione meno fisica di quella di Reagan del L’Esorcista, ma altrettanto inquietante. E’ quasi impossibile non metterle a confronto, nel loro sbottare, urlare, digrignare i denti, e arrivare ad aggredire fisicamente gli adulti a loro vicini. Anche qui la gravità della possessione viene enfatizzata dal fatto che il soggetto è una bambina innocente, e l’aspetto che più ci sconvolge è il loro linguaggio osceno, il segnale evidente che qualcos’altro le sta controllando.
A salvare la bambina dalla dannazione non interviene un prete, bensì uno sciamano. La nonna chiama un esperto di riti sciamanici per purificare la casa e cercare di esorcizzare la bambina, mentre l’unico prete coinvolto nella storia neanche si avvicina alla casa, ma opera piuttosto un ruolo di assistente e traduttore, tenuto molto in secondo piano. Tra le due confessioni diciamo che non è quella cristiana quella che si propone di salvare la situazione. I riti dello sciamano sono pittoreschi e affascinanti, ma non sembrano sortire l’effetto desiderato sulla bambina, che pare soffra più di prima. La scena principale dell’esorcismo di notte, alla luce dei fuochi, è giocata in montaggio alternato con l’azione del giapponese, intento anche lui in un rito. Sembra che i due lottino per l’anima della bambina, utilizzando dei riti molto simili. L’idea del diavolo che pratica un rito è interessante, perché dialoga con la stregoneria occidentale ma anche con i riti coreani che vediamo fare dallo sciamano.

A differenza degli altri due film, in cui il diavolo è una presenza invisibile, palesata solo da un paio di occhi fiammeggianti o da una antica statua, in The Wailing ci viene suggerito dalla prima inquadratura che il diavolo è un essere umano vero, in carne ed ossa, che come un ramingo vaga di villaggio in villaggio a diffondere una piaga. Mentre negli altri film attaccava per una ragione, cioè riprodursi oppure scontrarsi con i ministri del bene, qui la possessione dilaga come una malattia, mostrandosi attraverso dinamiche più proprie dei film di contagio o addirittura dei film di zombie: un membro della famiglia viene attaccato, impazzisce, uccide gli altri e poi si autodistrugge. Ad un certo punto vediamo il diavolo addirittura riportare in vita un morto, in una forma molto simile allo zombie, perché possa aiutarlo a fronteggiare gli abitanti. A mio parere queste scelte sono dovute alla ricerca di una configurazione fisica del demone, che quindi è visivamente inequivocabile ma al tempo stesso mantiene il potere di non morire mai. Unisce il peggio delle due cose, in sostanza.
Dal primo momento ci viene suggerito che questo giapponese (per altro Jun Kunimura, un attore di calibro altissimo, conosciuto per Black Rain, Hard Boiled, Audition) è il nemico. Il regista ha dichiarato di voler approfondire come in una comunità ci si possa accanire contro l’outsider, il diverso, solo per una supposizione, ed è esattamente ciò che accade nel film. Quest’uomo non sembra affatto più temibile di altri, ma è sempre presente e il protagonista si convince della sua colpevolezza. Questa caccia all’uomo viene sospinta per tutto il film, con prove sempre più schiaccianti che cozzano con l’immagine pulita che l’uomo ci presenta, ma a un dato momento non abbiamo più dubbi. E’ lui.
E a quel punto il film riesce a fare qualcosa di impossibile, cioè farci cambiare idea in un istante. Verso mezz’ora dalla fine del film ci viene suggerito che il colpevole potrebbe essere qualcun altro, cioè la donna in bianco. Non l’ho nominata finora perchè anche nel film è un personaggio che compare a sprazzi, sempre in modo sommesso e silenzioso, e ci viene raccontata un po’ come la pazza del villaggio. Lungo la storia siamo stati talmente martellati dalle supposizioni sul giapponese che su questa donna non sappiamo niente. E in pochissimi minuti il film arriva a farci credere che sia lei l’origine di tutto. Il protagonista si trova in uno stallo in cui non sa se fidarsi di lei o fuggire, e in quel tempo le sue certezze oscillano paurosamente da un estremo all’altro portandoci con lui. Questo momento è audace e geniale perchè, dopo diversi minuti di tensione, il protagonista infine fa la sua scelta e sbaglia, facendoci ripiombare nella consapevolezza che avevamo sempre avuto. L’ultimo atto del film riesce a farci cambiare idea tre volte giocando ancora sapientemente con il montaggio alternato, e crea una tensione che mostra il potere del film sulla storia: abbiamo sempre avuto la soluzione sotto il naso, ma ci siamo lasciati distrarre da un escamotage.
Si, è il giapponese il diavolo, e si, non c’è più scampo per nessuno.
Un finale da brividi, in cui capiamo che l’uomo è andato a cercarsi la dannazione con le sue mani. Mentre il protagonista viene ucciso da sua figlia, lontano tra le montagne il prete che lo aveva accompagnato alla ricerca della verità si confronta con il diavolo in persona, carne, ossa ed effetti speciali, che gli scatta una foto e lo condanna alla morte. Sempre suggestiva anche questa idea della foto che ruba l’anima come strumento del diavolo per controllare le sue vittime, in piena tradizione voodoo. E una delle ultime criptiche immagini del film vede proprio lo sciamano, che sembrava tanto adoperarsi per la liberazione del villaggio dal demonio, raccogliere uno scatolone delle fotografie diaboliche, che lui ha raccolto e occultato per lui. Ecco che allora tutte le sue azioni possono essere rivalutate in base a questo ultimo disvelamento, un po’ il meccanismo usato anche da Us.


Queste sono solo alcune delle cose di cui si può parlare riguardo a The Wailing. Ho voluto concentrarmi sui punti di contatto con Rosemary’s Baby e L’Esorcista, ma si potrebbe andare ad analizzare molti altri aspetti: le influenze derivate dall’horror giapponese, l’analisi del protagonista che fa un evoluzione incredibile dal poliziotto comico al padre distrutto o anche l’uso di esterne ampie e luminose, un elemento inusuale nel cinema horror e che ora su due piedi mi rimandano alle anticipazioni su Midsommar.
Insomma è un film di cui si può parlare tanto, che vale assolutamente la pena di vedere e che è piaciuto molto alla critica, secondo me proprio perchè ha saputo giocare su elementi diversi, tra il cliché e il citazionismo, tenendo in piedi una storia ben scritta e ben orchestrata, capace davvero di impressionare. E stavolta non solo per i jump scare.