I-Scream – Audition

Spero vivamente che chiunque legga questo articolo abbia visto il film. 

Quando ho deciso di vederlo, intenzionata a recuperare alcuni dei film orientali che ancora avevo in elenco, non sapevo nulla di quest’opera, solo un vago accenno al fatto che la storia parlava di un uomo che indice un’audizione per trovare moglie. Questa premessa non è affatto sufficiente per prepararsi a quello che si vedrà nel film, ma devo dire che se avessi visto il trailer, o delle immagini, prima della visione, ne avrei senza dubbio sofferto. In generale io preferisco non informarmi troppo prima della visione, ma in questo caso è stato fondamentale.
Ma se lo avete visto possiamo procedere.

Ricorderete senz’altro che questo film non sembra affatto horror all’inizio, bisogna aspettare il minuto 47 perché esploda in una delle scene più inaspettate che abbia mai visto. 

La storia è piuttosto semplice. Tratta dall’omonimo romanzo di Ryu Murakami, Audition ci presenta Aoyama (Ryo Ishibashi), un ometto semplice e sobrio, vedovo e con un figlio grande, che desidera trovare una nuova compagna. Indice delle audizioni, ma camuffandole da casting per un film. Conosce una serie di candidate e tra queste identifica Asami (Eihi Shiina), che lo ha colpito non solo per la sua spontanea lettera di presentazione, ma anche per il suo aspetto diafano e dolce. Aoyama scopre le carte e comincia a corteggiarla goffamente, e lei sembra corrispondere. Asami però è sfuggente, e qualcosa in lei non torna: il suo agente in realtà non esiste, il luogo dove lavora è chiuso da un anno, e più Aoyama cerca di appianare i suoi dubbi più viene assalito da impressionanti immagini, flashback e informazioni inquietanti sul conto della donna. Sebbene il suo amico e collega cerchi di dissuaderlo, Aoyama continua a inseguire il sogno che ha già costruito nella sua mente: conquistare Asami, sposarla e vivere con lei il resto della sua vecchiaia. 

Mentre Aoyama va per la sua strada, con questa idea cementificata in testa, noi spettatori abbiamo modo di vedere quanto pericoloso possa essere avvicinarsi ad Asami. L’immagine di quel sacco che sussulta improvvisamente è folgorante, e ci introduce in un mondo di possibilità, nessuna della quali è sana. E quel sacco tornerà nelle allucinazioni di Aoyama rivelando al suo interno un uomo brutalmente mutilato, una delle immagini più inaccettabili del film per il disgusto e la pietà che suscita. L’uomo è il precedente amante di Asami, che, colpevole di non essere rimasto con lei, è stato seviziato, mutilato e costretto in una cattività brutale, in uno stato quasi di demenza. Da lì a poco Asami allestirà un nuovo altare per sacrificare anche Aoyama, che verrà immobilizzato e torturato a sua volta. 

Il film inserisce con maestria le sue scene di violenza, in modo da farci arrivare all’orrendo finale da pelle d’oca a poco a poco. Adocchiando il film dalla porta d’ingresso sembrava un romance, ma usciremo correndo terrorizzati dalla porta sul retro, portando con noi i brividi e la voce di Asami. 

Oltre a questa tecnica di immersione lenta, Miike rende la sequenza finale agghiacciante grazie ad altri escamotage. I meccanismi puri del jump scare horror vengono anch’essi inseriti, così come il vedo-non vedo, ma la cosa peggiore è il sorriso dolce di Asami mentre parla con Aoyama in tutte le fasi della tortura. Mentre infila dei lunghi spilli nella carne dell’uomo risuona il suo “Kiri, kiri”, quasi canticchiato, che aggiunge un’interpretazione giocosa al dolore incalcolabile che sta procurando all’uomo. Il sorriso stampato mentre gli sega via un piede è la sintesi perfetta del tipo di terrore che Miike ha voluto insinuare. In un’intervista riportata da Il cineocchio lui dice:

“Nei film del terrore, pensiamo che l’elemento horror sia una cosa speciale che non esiste nella vita reale ed è per questo che possiamo godercela. Ma ci sono anche cose terrificanti nella vita e sono tutte opera degli esseri umani. Ciascuno ha quelle cose dentro di sé. Quindi, filmando degli esseri umani, diventa in modo naturale un film dell’orrore.”

Perchè Asami tortura gli uomini? Questo film è stato analizzato e interpretato in vari modi da quando uscì nel 1999, ed è curioso notare come siano state fatte letture sia misogine che femministe. Asami in un certo senso si prende una rivincita sull’uomo che la voleva usare, infliggendogli insieme al dolore una consapevolezza di aver giocato con il fuoco. Dall’altra parte la donna qui viene ritratta in balia dei suoi sentimenti e del suo desiderio di vendetta in maniera isterica e immotivata, aderendo al preconcetto della donna come essere irrazionale e imprevedibile. 

Personalmente trovo che le due interpretazioni siano entrambe interessanti, ma preferisco pensare che Asami sia consapevole in maniera totale dell’atto che sta compiendo, e di quelli fatti in precedenza. Lei rientra nello stereotipo del serial killer: le piace torturare gli uomini come prolungamento dell’effetto che ha su di loro. Ama essere corteggiata, cercata, essere padrona della situazione. Una smania di potere calcolata in ogni passaggio, forse maturata nel confronto con il patrigno che l’ha sfregiata. Anche se non viene esplicitato possiamo pensare che lui oltre a punirla con dei ferri roventi abbia abusato di lei, andando forse a creare un legame tra il rapporto umano e sessuale con la violenza. Se ha subito questi traumi Asami è anche riuscita a trovare un modo per uscirne, seviziando gli altri. Forse l’audizione del titolo non è quella di Aoyama, ma quella di Asami, che l’ha selezionato come vittima.

Aoyama non è un santo, è un uomo con sogni e bisogni, ma non direi che è un maschilista o un uomo che merita il trattamento che Asami gli impone. Certo è però che il personaggio ha dei tratti sfumati non proprio chiari. Il meccanismo dell’audizione per trovare una compagna può risultare strano al nostro occhio occidentale, ma che la società giapponese accetta, anche quando nascosta sotto la scusante di un casting per un film. Il maschilismo di fondo di questa operazione coinvolge anche Aoyama, che vi si adatta per convenienza. Più allarmante è piuttosto la relazione con la sua segretaria, che può spalancare le porte su un aspetto più riprovevole. Dopo averla vista più volte chiedergli una qualche sorta di contribuito al suo matrimonio, la rivediamo nella sequenza allucinatoria che precede la mutilazione del protagonista, al posto di Asami durante una fellatio. Perché compare lì? Improvvisamente quella richiesta, che io ho interpretato come una dote richiesta al datore di lavoro, risulta più come un compenso per la prestazione a cui lei si è sottoposta o un aiuto per una gravidanza indesiderata. Lo scopriremo nel film? No, non ci viene permesso di sapere se Aoyama merita o meno quello che sta vedendo, anzi. Questo aspetto è lasciato molto in sordina, a metà tra briciole disseminate nel reale e fantasie allucinate. 

Questa atmosfera di continua separazione e poi ritorno al reale è una costante nel film, dove a immagini reali e riconducibili alla realtà di Aoyama vengono giustapposte visioni, pensieri, sogni, dai quali il protagonista continua a precipitare, raggiungendo di scena in scena un nuovo livello verso l’orrore. Questo concetto viene elaborato dal regista grazie alle scelte formali che fa. Nello specifico vorrei soffermarmi sulla scena del locale che si svolge appena dopo la famigerata apparizione del sacco, a minuto 48.

La scena che per sua natura dovrebbe essere statica viene animata da una frammentazione in quadri molto varia e articolata. La regola vorrebbe un’alternanza ritmata di mezzi busti dei due attori che dialogano, al massimo inframezzata da alcuni campi totali o da movimenti di macchina (c’è un esempio molto impressionante in The post di Spielberg, per esempio). Qui invece Miike ha scelto di alternare mezzibusti a primi piani, a volte persino primissimi piani, e soprattutto di scavallare il campo. Una scelta evidente anche per uno spettatore non tecnico, che possiamo notare in maniera lampante nei frame relativi ad Asami (n. 3, 5, 7, 9 e 10, in cui abbiamo in successione un mezzo busto dal basso, un piano laterale, un primissimo piano dal lato opposto, torniamo al piano laterale precedente e poi ci allontaniamo in un campo totale, che non è però quello da cui abbiamo iniziato la scena) oppure a Aoyama (n. 12, 14 e 16, che sembrano lo stesso angolo macchina ma in realtà ad ogni inquadratura siamo più vicini e leggermente spostati rispetto all’inquadratura precedente). Inoltre, per lavorare sul senso di irrealtà, la prima sequenza si apre con un campo totale in cui il locale è gremito, per chiudersi con una inquadratura quasi identica in cui il locale è completamente vuoto (cfr 1-18). 

Dopo aver visto il film mi sono venuti in mente alcuni paralleli con altre pellicole. Innanzitutto Asami rientra in un’iconografia molto usuale nell’horror giapponese, ereditata da The Ring (1998), che è appena precedente, e sull’onda del quale questo film è stato prodotto. Un altro regista giapponese con cui si può fare un ponte è Sion Sono, che ambienta il suo Noriko Dinner’s Table (2005) nello stesso contesto (relazioni in affitto, rapporti familiari irrisolti, violenza che esplode) e fa anche una scelta di ambientazioni piuttosto simili. Oltre al mondo del Giappone ho trovato un legame anche nel film sud coreano A Tale of Two Sisters (2003). Anche questo film horror gioca molto su flashback, inquietudini, rapporti familiari tesi e pronti a esplodere, e soprattutto anche qui abbiamo un misterioso sacco con dentro qualcosa di vivo…

Infine per me il momento del taglio dei piedi è entrato subito in dialogo con la scena di Misery non deve morire (1987), in cui al protagonista James Caan vengono spezzate le caviglie a martellate dal perfido personaggio di Kathy Bates che, al di là dell’aspetto esteriore, condivide diverse caratteristiche con Asami: amabili, estimatrici dell’altro (almeno in apparenza), sole, con un passato di azioni violente, e inarrestabili.

Tutt’ora questo è uno dei film più ricordati nella lunga filmografia di Takeshi Miike (ha lavorato a più di 100 film!), e quello che gli è valso il riconoscimento del mondo del cinema a livello internazionale. 

Pare che, nonostante il film sia stato subito adottato dalla critica, parte del pubblico sia rimasto (giustamente) sconvolto. Un trivia dal festival di Rotterdam racconta che una signora ha atteso il regista dopo la proiezione del film per dirgli “You are the Evil”.

Audition è un film violento e crudele in maniera quasi ingiustificata, ma il modo in cui ci conduce in quel turbinio di ansia e tensione è condotto in maniera magistrale, con un uso di inquadrature spiazzanti e inaspettate e un montaggio particolarmente destabilizzante, che ci fornisce un nuovo sguardo per accedere a quel tipo di orrore molto umano, quasi quotidiano. Non ci sono mostri o luoghi strani, solo case e solo persone pronte a farsi dannatamente del male. Non è forse questa l’origine di ogni film horror?

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