Directed by Danny Boyle

Questo mese ci soffermiamo su un autore sempre meno citato, che però passerà alla storia anche solo per il suo titolo più famoso: Trainspotting.

Ebbene sì, è arrivato il momento di confrontarsi con la filmografia di Danny Boyle, regista inglese sempre capace di rinnovarsi e di intraprendere nuove strade, ma al tempo stesso di mantenere una propria riconoscibile cifra di stile. L’ho seguito con crescente interesse da quando ho cominciato ad appassionarmi al cinema e ho sempre voluto trovare la chiave per dare un senso a ciò che apprezzo dei suoi tredici film, tra loro così diversi. Ho sempre citato Boyle tra i miei registi di interesse paragonandolo provocatoriamente a Stanley Kubrick: sebbene i due autori si collochino in contesti completamente diversi, sono accomunati dall’audacia con cui hanno affrontato una gran varietà di generi, facendo di ogni film la tappa di un percorso, e mantenendo al tempo stesso una solida identità di autore.

Boyle è di origini irlandesi, ma è nato a Radcliffe in provincia di Manchester nel 1956. Cresce in una famiglia fortemente cattolica, tanto che la madre aveva in mente per il figlio il sacerdozio. In definitiva però Boyle non andò in seminario e proseguì gli studi a scuola, dove scopre l’arte drammatica non era dissimile dall’attività di un prete: 

It’s basically the same job – poncing around, telling people what to think.”

Termina gli studi presso l’University College of North Wales, dove studiò English and Drama, e nel 1982 (a 26 anni) dirige i suoi primi spettacoli teatrali al Royal Court Theatre. Nel 1987 passa invece a lavorare in televisione presso la BBC North Ireland. Negli anni successivi Boyle proseguirà a lavorare per produzioni non cinematografiche, quindi teatro, televisione e infine l’esperienza della direzione della cerimonia per le Olimpiadi Estive del 2010

Fu durante il lavoro in televisione che seppe della ricerca di un regista per il film Shallow Grave. Lesse lo script, si presentò alle selezioni e fece una battuta su come gli autori avessero copiato i Fratelli Coen.
Shallow Grave (Piccoli omicidi tra amici, 1995) diventa il film d’esordio di Boyle, oltre che la prima prova nel cinema per lo sceneggiatore John Hodge (che resterà suo collaboratore) e per Ewan McGregor che recita per la prima volta al cinema. Shallow Grave è un film a basso budget che racconta di tre amici venuti in possesso di una grossa somma di denaro e come le implicazioni con questo bottino aprano un conflitto sempre più profondo e letale tra loro. E’ un thriller caustico e morboso, per lo più ambientato all’interno del grande appartamento dove i tre convivono, e che si intensifica piano piano attraverso i dialoghi. Qui sono già presenti i due temi che più di ogni altro ritornano nei film successivi del regista: la fuga disperata e il complesso di colpa, a volte legati tra loro, altre volte no. Tecnicamente possiamo vedere come ci è voluto ingegno per realizzare alcune scene senza il budget sufficiente (come il lavorio nel bosco mostrato in silhouette con fondo rosso) e vengono sperimentati alcuni elementi del linguaggio che resteranno cari allo stile di Boyle, come le riprese dall’alto e le rotazioni sull’asse della camera.

Il film ebbe un grande successo, fu il più grosso successo commerciale in Inghilterra di quell’anno, e portò Boyle alla realizzazione del suo secondo lavoro, quello che ad oggi è considerato il suo capolavoro.

Trainspotting (1997) è un film pietra miliare, capace di rappresentare un disagio sociale, un ritratto personale e al tempo stesso una intera generazione. Boyle stava già discutendo il progetto durante Shallow Grave, insieme allo stesso produttore Andrew McDonald e lo sceneggiatore Hodge. La sfida era trasformare almeno una parte del libro di Irvin Welsh in un film dalla struttura narrativa in tre atti che potesse svolgersi in 90 minuti, adatto quindi anche per un audience di massa e non solo per la nicchia che già aveva confidenza con l’autore. Il libro tratta il controverso tema della dipendenza da eroina negli anni ‘80 in Scozia e ripropone anche a livello strutturale un senso di spaesamento proprio della vita dei tossicodipendenti, senza linearità narrativa.
Il progetto fu approvato e prodotto da Channel 4, e subito venne scritturato Ewan McGregor come protagonista, dato che Boyle lo trovava adatto per il protagonista “repulsive…with charme. Subito venne coinvolto Ewen Bremner che stava già ricoprendo il ruolo di Renton nello spettacolo teatrale tratto da Welsh, ma che nel film recita il ruolo di Spud. Miller fu provinato e colpì per la sua imitazione dell’accento di Sean Connery, e infine venne reclutato Robert Carlyle. Per la parte di Diane, Boyle non voleva un’attrice troppo famosa, altrimenti nessuno avrebbe creduto al ruolo di sedicenne, e venne scelta Kelly Mcdonald.
Trainspotting fu girato in 7 settimane con un budget di un milione e mezzo di sterline, per cui dovette aguzzare l’ingegno, ad esempio eseguendo numerose riprese in continuità per risparmiare pellicola, e questo dona un sapore unico nel risultato finale del film.
Venne proiettato al festival di Cannes, ma fuori concorso a causa del tema trattato. Sebbene la critica ne fu entusiasta non mancarono le controversie e il film fu accusato di “romanticizzare” l’uso di droghe. Guardandolo oggi Trainspotting è ancora un’opera intensa e indimenticabile, capace di prendere alla pancia non solo per i suoi contenuti, ma per il suo potere visivo, i colori, le immagini, il montaggio ritmato con la musica pop e disco capace di immergerci completamente in un’atmosfera (elemento sottolineato dal critico Owen Gleiberman per connetterlo con Scorsese e Tarantino) e l’interpretazione di Ewan McGregor che ancora rimane tra le sue migliori. Boyle resta molto legato a McGregor, al punto di volerlo a tutti i costi anche per la sua produzione successiva.

A Life Less Ordinary (Una vita esagerata, 1997)
Boyle decise di realizzare questa commedia romantica, sempre prodotta dalla familiare Channel 4, piuttosto che accettare l’incarico per girare Alien Resurrection, che venne infatti assegnato a Jean-Pierre Jeunet. Preferì restare legato all’equipe che l’aveva già accompagnato nei film precedenti, nonostante i risultati di questa produzione furono molto deludenti. Il linguaggio è estroso, colorato e surreale, ma spinto a tal punto che ciò che ci rimane impresso è proprio il suo gusto tendente al trash piuttosto che la storia squinternata. Come nota giustamente Hollywood Suite non siamo ancora nella fase di successo delle commedie paradossali di Spike Jonze, e questo film risulta soltanto… strano! Boyle riesce però a sfruttare al massimo le ambientazioni americane e soprattutto la presenza magnetica di una star come Cameron Diaz, all’epoca attrice sulla cresta dell’onda, puntando moltissimo sulla sua figura e sulle sue espressioni. Accanto a lei McGregor, acconciato nella maniera più ridicola possibile, realizza un ruolo particolare a metà tra la spalla comica e l’eroe romantico. Dai dati del botteghino questo appare come un film sbagliato, ma possiamo davvero ridurlo in un commento così semplice? Si tratta di un lavoro diverso dai precedenti, in cui il regista testa un tono diverso e si mette in gioco, con un risultato divertente e visivamente “godurioso”. Grazie all credito ottenuto dalle produzioni precedenti, questo è un film molto libero, dove ci sono i soldi, ci sono i mezzi, ci sono gli attori e soprattutto c’è la possibilità di una sperimentazione illimitata. 

The Beach (2000) è stata un’esperienza molto difficile. Per Boyle spostarsi in America, già per A Life Less Ordinary fu un trauma, in più per The Beach si divise da Ewan McGregor in maniera brutale. Pare infatti che, sebbene McGregor fosse il candidato principale, la produzione propose a Boyle un budget più cospicuo se avesse incluso nel film Leonardo DiCaprio, già consacrato da Titanic. Il film è tratto da un racconto di Alex Garland (che adesso conosciamo anche come il regista di Ex Machina e Annihilation), e sempre da un suo racconto Boyle trarrà il suo film successivo 28 giorni dopo. The Beach è molto pop e ricco di immagini tanto meravigliose quanto artificiali, poiché le location furono trasformate con diversi interventi irreversibili per rendere la spiaggia più paradisiaca. Il film infatti è avvolto da un rumore di controversie legate ai danni ambientali (si dice che fu proprio su questo set che nacque la profonda sensibilità di DiCaprio per l’ambiente), e inoltre il grosso successo del film (incassò tre volte tanto rispetto all’investimento) portò un aumento dei turisti in quella regione della Thailandia, modificando la loro naturale conformazione ambientale e sociale. Detto questo, cosa possiamo dire su The Beach?
Nonostante il successo di incassi, su Rotten Tomatoes risulta come il film meno apprezzato di tutta la carriera di Danny Boyle. Io ne fui subito catturata perché è un film profondamente erotico: tutto vuole evidenziare la bellezza, la libertà, lo svago, il gioco, come sottolinea la musica elettronica adatta a un trip da acidi che ci accompagna sull’isola. Credo di essermi data una risposta più concreta rivedendolo in preparazione di questo articolo: è un film che ci asseconda a livello molto basso e istintuale, che cede alla tentazione di mostrarci tutto quello che può appagarci, e che sicuramente appaga anche il regista. Pensiamo a come viene introdotta la violenza: c’è un sottotesto di tensione costante, dato dalla violazione del divieto e dell’ignoto che sostiene la trama, che prorompe in numerose scene forti, tra cui l’aggressione dello squalo a danno dei tre fratelli svedesi. Il binomio di piacere e violenza, proprio del cinema postmoderno, viene sposato dal regista, che ci da proprio quello che vogliamo vedere, compiacendo e giustificando il nostro sguardo morboso. Che sia mostrata o narrata, la violenza usata da Boyle come motore narrativo e immaginifico tornerà spesso nei suoi film, diventando un’altra delle sue cifre di stile. 

28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) 
Alex Garland propose lo script per questo film a Boyle e al produttore McDonald dopo le riprese di The Beach, e il progetto si mise in pista con altre due case di produzione inglesi. E’ importante sottolineare il fatto che Boyle dia estrema importanza alla produzione a livello locale per incentivare l’economia inglese e mantenere i talenti sul territorio. 28 giorni dopo è uno zombie movie che si apre su una Londra deserta ed è incentrato sulla risposta dell’uomo alla pandemia virale, portando avanti il discorso intrinsecamente filosofico dietro la figura dello zombie. Il protagonista Jim è uno spettatore inconsapevole del disastro avvenuto, che scopre come un bambino i pericoli di cui si è riempito il mondo. Il suo percorso infatti è costellato di figure genitoriali che lo affiancano e lo guidano, fino a renderlo a sua volta simbolicamente padre. Il film è diventato un cult del genere grazie ai suoi personaggi, in particolare quello interpretato da Cillian Murphy, che fa un ingresso in scena memorabile e ultra copiato. Questa produzione aveva un budget più ridotto (8.000.000 di dollari in confronto ai 50.000.000 di The Beach) e Boyle ha affermato che girare in queste condizioni lo ha costretto ad ingegnarsi per essere più creativo e più produttivo. Ad esempio sono state usate delle telecamere con cassette mini VD, che donano al film quella qualità grunge, rovinata, più simile alla texture di Trainspotting. Questo titolo rientra, come Trainspotting e Shallow Grave, tra i 100 migliori film inglesi secondo Empire, e si tratta effettivamente dei tre lavori con cui Boyle ha contribuito alla storia del cinema del suo paese. 

Millions (2004)
Questo è il film in cui Boyle si confronta con la sua formazione cattolica, attraverso la storia di un bambino i cui idoli sono i santi, che vede come amici immaginari. I toni sconclusionati e i colori accesi rimandano allo stile di A Life Less Ordinary, con cui condivide anche dei personaggi eterei (lì avevamo gli angeli, qui i santi). Il film è in parte mistery in parte commedia, scanzonato e semplice. Inizialmente doveva essere addirittura un musical, un genere che purtroppo Boyle ha finora solo sfiorato. Si tratta di una parentesi rosa tra 28 giorni dopo e il successivo Sunshine

Sunshine (2007)
Danny Boyle incontra qui la fantascienza, nuovamente in collaborazione con Alex Garland e con Cillian Murphy come protagonista. Il film venne proposto alla 20th Century Fox come un Solaris del 2002, ma è debitore soprattutto di 2001: Odissea nello spazio e di Alien (film per altro imprescindibili per tutta la fantascienza a seguire). Già dall’ambientazione ci sembra di tornare in un luogo familiare, anche se Boyle ha personalizzato molto il suo universo sci-fi. Il film si ambienta interamente su una astronave la cui missione è riattivare il sole con un ordigno esplosivo, e naturalmente il cuore della narrazione sono i rapporti umani tra i membri dell’equipaggio, tra cui spiccano accanto a Murphy, Rose Byrne, Chris Evans e Michelle Yeoh (per altro l’equipaggio ha una gran componente di attori di origine orientale: ci sono Benedict Wong e Hiroyuki Sanada). Conflitti psicologici e scontri fisici si alternano mantenendo la tensione alta come in un thriller la cui storia procede in maniera inaspettata. Sunshine diventa così un un unicum nel suo genere. Un altro elemento interessante è come nel film viene riprodotto lo sguardo del personaggio di Mark Strong: la sua vista è danneggiata per cui la sua soggettiva viene riproposta con un riverbero dell’immagine, come sfaldata in più livelli. Il suo sguardo così distorto viene condiviso con noi ed esce dai margini, codificando un momento del racconto. Le scelte tecniche aderiscono perfettamente a una presa di posizione del regista nei confronti del personaggio e della situazione, e vediamo adesso come ciò diventa vitale nel film successivo.

Slumdog Millionaire (The Millionaire, 2008)
Questo è stato il successo più acclamato e incredibile per Boyle, considerando che portò a casa ben 8 premi Oscar (ricordiamo che al momento il record è di 14 oscar vinti). Tratto dal romanzo di Vikas Swarup Q&A, il film parla di un ragazzo di umili origini la cui infanzia tormentata emerge mentre sta concorrendo per la versione indiana di Chi vuol essere milionario?, creando con un gioco di flashback il ritratto tormentato e vitale delle slums. The Millionaire è stato il maggior successo inglese nel decennio 2000-2010, ed è curioso se pensiamo che è un prodotto molto indiano. Le riprese si sono svolte a Mumbai, il cast è quasi completamente indiano e anche molti dei dialoghi sono stati recitati in hindi, per aumentare il senso di realtà della pellicola (cosa che, ahimè, nei film anglofoni si fa molto di rado). Inoltre Boyle ha elencato numerosi film indiani che lo hanno ispirato durante la lavorazione, ed è evidente come sia stato influenzato da questa cultura nella sequenza finale del ballo di gruppo derivato direttamente da Bollywood. Boyle si dimostra quindi estremamente disponibile ad accogliere gli elementi culturali del mondo che ha tentato di rappresentare. Il risultato è un film coinvolgente e dal sapore autentico, grazie anche al lavoro sul suono. Si mescolano gli elementi della fiaba, ottenuti anche grazie al racconto dei flashback in prima persona, a un racconto di denuncia sociale che sfocia nel crime movie, con diverse scene anche molto crude. E il film riesce a fare tutto questo al ritmo forsennato di una musica vivace e onnipresente. Inoltre qui possiamo soffermarci a studiare l’utilizzo dei dutch angle da parte del regista: si tratta di un tipo di inquadratura realizzata inclinando di alcuni gradi la macchina da presa sull’asse orizzontale, con l’effetto evidente di avere i piani sbilanciati verso un lato. Questa tecnica suggerisce un forte senso di instabilità e di inquietudine, e raramente viene utilizzata così tanto e così correttamente come nei film di Boyle. Li troviamo sin dai suoi primi lavori, ma in The Millionaire è decisamente uno degli elementi che lo connotano, accompagnando i protagonista come una esternazione del suo continuo disagio. L’altra tecnica molto usata da Boyle è lo step printing. Si tratta di riprendere ad elevato frame rate, come quando si vuole creare uno slow motion, e poi in fase di montaggio di rimuovono dei frame all’interno dell’azione. Il risultato è quello di un movimento dinamico ma a scatti, come vedere una serie di fotografie che lasciano la scia. E’ una tecnica diventata famosissima grazie al cinema di Wong Kar-wai che riesce a condensare i concetti di lentezza e velocità, creando a sua volta spaesamento.

127 Hours (127 ore, 2010)
“An action movie with a guy who can’t move”, così Danny Boyle ha descritto il film durante il London Film Festival nel 2010. Decise di approfittare del successo di The Millionaire per lanciarsi in un progetto diverso e molto più rischioso, basato sulla storia vera dello scalatore Aron Ralston, che nel 2003 rimase intrappolato per più di cinque giorni un una gola con un masso che gli stritolava il braccio destro. Ciò che colpì Boyle fu, oltre alla prestazione fisica estrema che Ralston dovette sostenere, il fatto che lo scalatore registrò diversi videomessaggi per la famiglia credendo che sarebbe morto lì nel canyon, mostrando una lucidità fuori dal comune. Boyle riuscì a vedere questi video con il consenso di Ralston, e così anche James Franco che lo ritrae sullo schermo. Franco fu scritturato dopo che diversi altri nomi erano stati fatti (Murphy, Ryan Gosling, Sebastian Stan) e alla fine il suo carisma si è dimostrato spettacolare nel riuscire a tenere un film sulle proprie spalle. 127 ore non abbandona mai Aron, è un film dove lo spettatore è costretto con lui nella gola in ogni momento, arrivando a condividerne i pensieri, le speranze e anche il dolore fisico. Il momento in cui Aron decide di amputarsi il braccio diventa impressionante per come il film ci immerge in quella esperienza straziante grazie all’uso delle immagini a raggi x, della musica rutilante e dell’improvviso silenzio che riempie lo spazio, dandoci l’impressione del distacco dove il dolore è talmente forte da cancellare ogni altra cosa. Boyle è spesso analizzato nel suo uso di musiche coinvolgenti, ma in effetti ha sempre usato in maniera altrettanto importante il silenzio, per sottolineare spaesamento, sospensione e drammaticità. 

Trance (In trance, 2013)
Vi stupirà scoprire che lo script venne proposto a Boyle quasi 20 anni prima della sua realizzazione, ai tempi di Shallow Grave! Boyle entrò in contatto con il giovane Joe Ahearne che cercava incoraggiamento, e che ebbe poi una carriera come sceneggiatore televisivo. Il regista lo ricontattò per fare finalmente di Trance un film, e per l’occasione tornò a coinvolgere il suo sceneggiatore degli inizi John Hodge. Il protagonista Simon (James McAvoy) è un banditore d’asta coinvolto nel furto di un dipinto da parte di un criminale (Vincent Cassel), ma durante la rapina viene colpito alla testa e dimentica dove è nascosto il quadro. Cercherà di recuperare la memoria grazie a una psichiatra (Rosario Dawson) attraverso l’ipnosi. Da questo incipit la storia si sviluppa attraverso una serie di colpi di scena sempre più grandi: McAvoy racconta come fu conquistato dalla parte perché ogni dieci pagine scopriva qualcosa di nuovo del suo personaggio. Il film è stato prodotto in contemporanea con Inception, con cui condivide una sottile fratellanza per i temi trattati. Gli inganni della mente sono al centro del film di Boyle, che possiamo definire come un thriller psicologico con derive drammatiche. La produzione rimase congelata dopo le riprese perché il regista si concentrò sulla cerimonia di apertura delle Olimpiadi, dopodiché venne ultimato e uscì, ricevendo critiche positive.

Steve Jobs (2015)
La Sony acquisì i diritti della biografia scritta da Oscar Isaacson appena dopo la morte di Jobs, e chiamò Aaron Sorkin all’adattamento. La produzione tardò per anni a causa delle numerose proposte di casting (parliamo dei principali attori di Hollywood, Clooney, DiCaprio, Cruise, McConaughey, Damon, Ben Affleck!, Natalie Portman, Charlize Theron, Scarlett Johansson), ma in definitiva la squadra doveva contare di Christian Bale come Steve Jobs e David Fincher come regia. Entrambi abbandonarono, ed emersero i nomi di Michael Fassbender e di Danny Boyle. Il film ruota intorno a tre presentazioni di lancio di prodotti proposti da Steve Jobs in tre diversi anni, 1984, 1988 e 1998, raccontando in tempo reale i minuti precedenti ai tre eventi, in modo da mostrare in quei brevi momenti la personalità di Jobs e il suo rapporto con la famiglia e i collaboratori. Sono stati usati tre diversi formati di pellicola per dare la sensazione del tempo in cui le vicende si svolgono, e Fassbender è costantemente in campo, reggendo sequenze lunghissime e in tensione crescente. Naturalmente si tratta di un film che ricostruisce un personaggio, non il fatto storico in sé e per sé, e Boyle lo spiega molto bene così: “E’ come faceva Shakespeare. Prendeva alcuni dei fatti accaduti a un uomo di potere e provava a indovinare tutto il resto, e così riusciva a ricostruire l’uomo dietro quei fatti”. Il film è vorticoso e martellante, tutto ambientato dietro le quinte di quelli che sono i prodotti che hanno segnato una nuova generazione di computer, che sono elementi forti nella nostra cultura, ed è innegabilmente interessante sbirciare nel backstage per scoprire i conflitti che li hanno accompagnati. 

T2 Trainspotting (2017)
Nel 2009 Boyle dichiarò di voler realizzare un sequel di Trainspotting, ma numerosi ostacoli si sarebbero presentati a questo progetto: innanzitutto la sceneggiatura venne scritta e riscritta, coinvolgendo l’autore del libro Welsh, andando ad analizzare Porno (il romanzo sequel di Trainspotting) e infine coinvolgendo Hodge, così che in realtà il sequel non fosse un pedissequo adattamento di Porno; poi bisognava attendere gli attori, i quali avevano i loro impegni, e tra loro bisognava riallacciare il rapporto con Ewan McGregor, con cui Boyle non parlava dai tempi di A Life Less Ordinary. Un’amicizia perduta per anni trovò lo spazio per essere rinnovata, e nel 2013 McGregor dichiarò che prospettava T2 Trainspotting come un’esperienza straordinaria, dove ci si sarebbe ritrovati con tutto il vecchio set. In questo modo la data di lavorazione si spostò sempre più verso marzo 2016, cosa che prometteva l’uscita in corrispondenza con il 20° anniversario di Trainspotting. L’intento era fare un film fresco e contemporaneo, che non intaccasse l’eredità del film precedente, ma anzi aggiungesse qualcosa a quella storia. E infatti è un esempio mirabile di sequel: la storia riesce a stare in piedi da sola, potremmo seguirla anche senza aver visto il primo film, perché i personaggi rievocano i fatti che li hanno condotti al presente che stiamo vivendo; al tempo stesso T2 rievoca nostalgicamente luoghi e immagini, aggiornandoli, rivisitandoli, non semplicemente scopiazzandoli; se pensiamo poi che è un film sulla riconciliazione dietro al quale ci sono delle effettive riunioni di persone che non si vedevano da tempo il tutto acquista un potere maggiore; inoltre è stato aggiornato il linguaggio, anche se il ritmo continua a seguire la musica martellante, questa volta propria dei giorni nostri. E’ un film divertente, in cui i personaggi riscoprono la loro giovinezza ma al tempo stesso si confrontano con le loro scelte sbagliate, riconfermandosi o evolvendo nuovamente. Perché non si smette mai di crescere, neanche da adulti. 

T2 è stato un buon successo, che ha rilanciato ancora una volta Boyle come regista capace. Nel 2018 venne scelto come regista per il 25° film di 007 (che è stato prodotto poi nel 2019 con Cary Fukunaga alla regia, con titolo No Time to Die), ma Boyle abbandonò il progetto per divergenze sulla sceneggiatura, a quanto pare relative al villain della storia. E in definitiva dichiarò di non sentirsi un regista adatto all’interno di un franchise.

Poco dopo venne coinvolto da Richard Curtis per la lavorazione di Yesterday (2019), che è a oggi il suo ultimo film. Rispetto ai precedenti è c’è poco da dire: la trama è semplice e lineare, una rom-com leggermente fuori dagli schemi, che è conforme al pensiero del regista: si riconferma infatti l’amore di Boyle per la cultura inglese e la sua riflessione sul patrimonio umano globale, in linea con il suo sentimento europeista. L’attore protagonista Himesh Patel (nessuna parentela con il Dev Patel di The Millionaire, hanno solo entrambi origini indiane) è stato scelto per la voce, che a parere di Boyle mostra un’anima e è in grado sostenere tutto il film senza però far sentire la “mancanza” ovvia delle sonorità dei Beatles. Grande successo al botteghino, ma la critica è rimasta piuttosto fredda, poiché anche dal punto di vista registico risulta meno audace dei precedenti.

A mio parere Boyle non ha mai sbagliato un colpo, sebbene abbia portato a casa (sempre con un buon risultato) anche film sconosciuti ai più o non apprezzati dalla critica. Effettivamente, dopo il caso di Trainspotting, che è diventato istantaneamente uno dei film più rappresentativi di un’era, per Boyle è stato impossibile battere se stesso. Ma invece di ripetersi, cercando di ritornare costantemente sulla sua opera di maggior successo, il regista è riuscito a mettersi in gioco con tantissimi lavori differenti, coinvolgendo alcuni degli attori più capace degli ultimi anni. Meritava quindi di essere analizzato, poiché ha dato un suo contributo spontaneo alla diversificazione e all’accrescimento di numerosi generi cinematografici, dandone una propria originale versione. 

“I love the unexpected in cinema,” he said. “And I believe you have an obligation to refresh and renew it. I guess you can hit a barrier, but you never find out until afterward. I love the feeling of setting something up with no easy answers, so people are just bombarding you with questions.”

Personal rank

  1. Trainspotting
  2. Shallow Grave
  3. Slumdog Millionaire
  4. Sunshine
  5. 127 Hours
  6. 28 Days Later
  7. Trance
  8. Steve Jobs
  9. T2 Trainspotting
  10. The Beach
  11. Millions
  12. A Life Less Ordinary
  13. Yesterday

FONTI

Danny Boyle
Danny Boyle on Imdb
Rotten Tomatoes
Defining Danny Boyle
SFX Frame rate
Choosing Between Life and Limb, New York Times
Cosa ha imparato Danny Boyle da Bond 25
Playlist Spotify Danny Boyle Soundtrack
Danny Boyle Man of Wonder
Steve Jobs Is not a Biopic
The Reason Ewan McGregor & Danny Boyle Didn’t Speak for Years
A Danny Boyle Tribute
Danny Boyle Wins Best Director
Danny Boyle on the Original Trainspotting Nostalghia
Aaron Sorkin and Danny Boyle on the making of “Steve Jobs”
Sunshine Explored

Leave Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *