Bong Joon-ho è l’uomo sulla bocca di tutti in questo periodo. Avevamo deciso di dedicargli la nostra seconda filmografia (avete letto quella su Todd Phillips?) già l’anno scorso, prima che scoppiasse il “caso Parasite”, e non può esserci momento migliore per riflettere sul lavoro di questo grande autore del cinema contemporaneo. Tutti parlano di Parasite, ma il suo percorso è cominciato diversi anni fa con una lunga serie di ottimi lavori.
Biografia
Nato il 14 settembre 1969 a Daegu (Corea del Sud), dopo la formazione di base si è iscritto all’Università Yonsei di Seoul nel 1988 specializzandosi in Sociologia. In quegli anni gli istituti come la Yonsei erano i fulcri delle manifestazioni del movimento democratico per la Corea del Sud, a cui Bong ha preso parte in modo attivo. Dopo i due anni di servizio militare obbligatorio, nel 1992 è tornato all’università dove insieme ad altri studenti ha fondato un club cinematografico chiamato Yellow Door. Qui ha realizzato i primi cortometraggi: un progetto in stop-motion chiamato Looking for Paradise e il primo corto in 16 mm, White Man.
Nei primi anni ‘90 ha anche seguito un corso di due anni alla Korean Academy of Film Arts. I corti con cui si è laureato, Memory Within the Frame e Incoherence, sono stati proiettati ai festival internazionali di Vancouver e Hong Kong.

Cortometraggi d’esordio
White Man (1994), Memories in my Frame (1994), Incoherence (1994)
Un uomo trova un dito andando al lavoro e passa una giornata a giocarci, un bambino sente il suo cane che abbaia guardando una foto, tre uomini sfiorano l’immoralità. Nei corti d’esordio di Bong Joon-ho troviamo già le impronte del suo cinema, dal mix di generi alla critica sociale. In particolare risulta molto interessante Incoherence che, nella sua semplicità, dimostra le sue ottime abilità di sceneggiatore. Questo corto di 31 minuti è diviso in quattro parti, Cockroach, Up the Alleys, The Night of Pain e Epilogue, le prime tre mostrano tre uomini, apparentemente qualunque, compiere piccoli “crimini” come sfogliare riviste porno, rubare il latte lasciato fuori dalla case e defecare in un parco pubblico. Nell’epilogo si vedono proprio loro tre che, essendo in realtà delle figure sociali di rilievo (professore, capo redattore di un giornale, pubblico ministero) appaiono in un programma televisivo per discutere la crisi morale in città. Capiamo così la loro ipocrisia e ci ritroviamo a riflettere sulle possibili bugie che si nascondono dietro ad ogni individuo.
Lungometraggi
Barking Dogs Never Bite (2000)
Nel primo lungometraggio di Bong Joon-ho la vicenda ruota intorno a due nuclei principali: Yun-ju e la moglie, Hyun-nam e una sua amica. Lui è un ricercatore universitario che vorrebbe diventare professore e, nell’attesa di raggiungere il suo obiettivo, inizia a dare la caccia ad un cane che viene abusivamente tenuto nel palazzo in cui vive e lo disturba per il suo abbaiare. Hyun-nam lavora nell’ufficio amministrativo del palazzo e vive la sua noiosa quotidianità alla ricerca di un’azione eroica che la faccia finire in televisione. In bilico sul sottile confine tra assurdo e realistico il film ci pone di fronte a diverse situazioni esilaranti che, per quanto sconclusionate, generano riflessioni sul carattere umano con radici molto profonde. Dall’incoerenza alla corruzione per ottenere il lavoro fino alla disperata ricerca di fama, Barking Dogs Never Bite è un ritratto sociale pungente ed efficace. È un’opera spontanea in cui si assapora tutta libertà espressiva di un regista ancora emergente. La regia forse non è eccelsa, e gli equilibri tra i generi non sono ancora perfezionati, ma si tratta di una esemplare introduzione a tutti gli elementi dominanti nel cinema di Bong, dai personaggi “miserabili”, al cinismo, fino all’inserimento di scene comiche che fanno da contrappunto allo sviluppo drammatico.
Memories of Murder (2003)
Se davanti al primo lungo si percepisce di essere di fronte ad un regista “emergente”, solo tre anni dopo siamo di fronte ad un autore che ha già conquistato piena maturità espressiva. Memories of Murder catturò subito l’attenzione del pubblico coreano, trattando il vero caso di una serie di omicidi avvenuti tra il 1986 e il 1991 il cui colpevole non era stato trovato. E’ un titolo ricorrente nelle liste dei migliori film coreani di sempre e osservandone le eccellenze, dall’ottima regia alla fotografia di Kim Hyung-ku, alle performance di Song Kang-ho e Kim Sang-kyung, si capisce perchè. Il tema fondamentale attorno a cui ruota tutto il film sono le dinamiche interne della polizia, per cui il popolo coreano ha nutrito per molti anni un forte sentimento di sfiducia causato dalla risaputa violenza durante gli interrogatori e dall’incompetenza dimostrata, ad esempio, dall’invenzione delle prove. È interessante osservare il dualismo tra Park Doo-man (interpretato da Song) e Seo Tae-yoon (interpretato da Kim), dove il primo è un poliziotto di campagna scorretto e immaturo, mentre il secondo è un poliziotto di città più giovane e allo stesso tempo più maturo e dedito a rispettare le regole. I loro scontri rappresentano la collisione di due realtà, quella del come stanno le cose e quella del come dovrebbero andare, senza dare risposte definitive allo spettatore e lasciandogli il compito di interpretare i fatti.

Già a partire da questi due film, anche se in modo più maturo nel secondo, emerge uno dei grandi punti di forza di Bong Joon-ho sceneggiatore-regista. Il suo è un cinema corale perché ha sempre come protagonisti “comunità” di persone, da coppie, a famiglie a gruppi riuniti per una lotta comune. È corale anche perché, pur parlando un linguaggio culturale specifico, relativo alla Corea del Sud, riesce a comunicare valori universali percepibili come fondamentali da persone provenienti da qualsiasi paese. C’è stato chi lo ha definito il regista più “americano” della New Wave coreana e per certi versi, vista la formazione con i film di Scorsese e altri grandi registi americani, è così. Ma il cinema di Bong non è semplicemente “più americano”, ma piuttosto si può definire più globale.
The Host (2006)
Con “solo” due film alle spalle Bong ha già conquistato l’ambiente cinematografico del suo paese. Infatti proprio a lui viene assegnata la regia del primo blockbuster e monster movie della storia del cinema coreano con un budget altissimo per quegli anni (circa 10 miliardi di won). Proiettato in anteprima a Cannes, è ancora oggi è suo film che ha incassato di più in Corea del Sud (Parasite, nel momento in cui questo articolo viene scritto, lo segue di poco). La vicenda è ispirata a fatti di cronaca, secondo cui un militare americano ordinò a un addetto dell’obitorio in cui lavorava di buttare della formaldeide nello scarico del lavandino, scatenando un conflitto processuale e diplomatico tra Corea del Sud e America. Bong usa qui l’escamotage narrativo del mostro per fare critica sociale in modo molto astuto, rompendo la normalità con un evento paranormale. Oltre alla caricatura dei rapporti tra i due paesi, fondamentale in questo lavoro è la messa in discussione del legame tra autorità e singolo individuo. Dal personaggio di Park Gang-du (anche lui interpretato da Song Kang-ho), che viene del tutto ignorato da poliziotti e medici, alla rabbia di Park Nam-il (interpretato da Park Hae-il) per aver lottato per la democratizzazione del paese e non aver ricevuto nulla in cambio, ogni personaggio è esempio di un diverso tipo di rapporto con lo stato.

Mother (2009)
Dopo The Host Bong torna ad un ambiente più intimo, che ricorda molto Memories of Murder. Anche in questo caso abbiamo a che fare con un omicidio ma, anche se presente, non è la polizia ad essere protagonista. Qui lo spettatore viene posto di fronte all’eterno quesito del “Cosa è giusto? Cosa è sbagliato?” attraverso l’amore di una madre che, pronta a fare qualsiasi cosa per il figlio, supera i limiti della morale. Passato abbastanza inosservato, purtroppo, tra i vari lavori di Bong, si tratta di un film la cui sceneggiatura dovrebbe essere studiata come meccanismo che funziona alla perfezione. Usando il filo della crime story nel corso del film vengono esposti indizi che suggeriscono sviluppi narrativi, ma vengono subito smontati in un costante ribaltamento delle convinzioni dello spettatore.

È questo un altro dei grandi punti di forza di Bong: la capacità di rappresentare dinamiche sociali che avvengono nella quotidianità, mettendone in discussione l’effettiva importanza e credibilità. Inaspettatamente riesce anche a far ridere di situazioni spinte al limite della plausibilità, lasciando in chi guarda molte domande e un profondo bisogno di riflessione.
Snowpiercer (2013) e Okja (2017)
Arrivato al successo internazionale con la sua capacità di parlare un linguaggio universale, Bong approda oltre oceano e realizza due film con produzione americana e cast internazionali.
Snowpiercer e Okja hanno alcuni elementi fondamentali osservati finora, come la critica sociale e il rapporto con l’autorità, a cui si aggiungono tematiche legate all’ambiente: la glaciazione totale del mondo nel primo e l’invenzione di un super-maiale che da quantità enormi di carne nel secondo.
Snowpiercer si sviluppa con una trama lineare, che segue la struttura verticale del treno in cui è ambientata la storia, e funziona meglio di Okja, che risulta più dispersivo e meno riuscito. Nel secondo infatti non bastano la buona CGI e il cast di ottimi attori a tenere in piedi la struttura narrativa. Okja è anche l’unico suo film prodotto da Netflix e, nonostante la piattaforma ne abbia permesso la realizzazione, sembra che Bong non sia stato soddisfatto di questa collaborazione. Per quanto la possibilità di sperimentazione è stata maggiore, stare tra le braccia di un’entità così grande ha in qualche modo destabilizzato gli equilibri creativi di Bong. Equilibri subito ritrovati con il ritorno in patria e la realizzazione di Parasite.

Parasite (2019)
Con l’ultimo film Bong ha letteralmente conquistato il mondo. Come detto nell’articolo con le curiosità sul film, ha vinto un numero quasi incalcolabile di premi e continua ancora la sua corsa verso l’alto. Se pensiamo al suo cinema come ad una pesca, all’inizio non era ancora matura, ma di film in film è diventata sempre più succosa fino ad esplodere di gusto. Tutta la maturazione della sua carriera è giunta qui ad una prova, appunto, degna di Oscar. La lotta tra ricchi e poveri prende vita e dalla battaglia emerge come non esistano buoni e cattivi. Siamo tutti sulla stessa barca, pronti a fare qualsiasi cosa per noi stessi. Le dinamiche relazionali, la critica sociale, la presenza nella società di reietti e signori, l’ingiustizia, ogni possibile aspetto umano affrontato da Bong in precedenza trova qui il suo coronamento. Ogni battuta è efficace, ogni inquadratura carica di significati e anche all’ennesima visione rivela nuovi elementi.

Guardando tutti i suoi lavori emerge la capacità di adattamento di Bong che, affrontando generi diversi, riesce a dare ad ogni film una propria specificità. Nonostante l’apparente diversità ogni sua opera ha scritto ben chiaro tra le righe che si tratta di un film diretto da lui.
Come gli ha scritto Scorsese nella sua lettera, “You’ve done well. Now rest. But don’t rest for too long.”, dopo l’ottimo lavoro è giusto che si goda il meritato riposo. Ma speriamo che questo non duri troppo e che potremo presto tornare al cinema a vedere un film directed by Bong Joon-ho.

Menzione ai lavori interessanti che non sono riuscita a recuperare:
Il progetto Tokyo!, un film composto da tre episodi diretti da Leos Carax, Michel Gondry e Bong.
Il cortometraggio Influenza, un mockumentary girato tutto attraverso telecamere di sorveglianza che narra di un disoccupato e del suo ingresso nel mondo del crimine.
I film di cui ha curato la sceneggiatura ma non la regia, Motel Cactus (1997), Antarctic Journal (2005) e Sea Fog (2014).
PERSONAL RANK
1. Parasite (2019)
2. Mother (2009)
3. The Host (2006)
4. Barking Dogs Never Bite (2000)
5. Memories of Murder (2003)
6. Snowpiercer (2013)
7. Okja (2017)
FONTI
Bong Joon-ho su IMDb
Bong Joon-ho’s path from Seoul to Oscar Dominance (The New York Times)
Lista dei film che hanno incassato di più in Corea del Sud
Corto White Man (1994)
Intervista TIFF 2019
Articolo di David Ehrlich su The Host (IndieWire)
I post su Facebook di Dario Tomasi