Nel secondo giorno della mostra gli spettatori sembrano aumentare, con l’avvicinarsi del primo week end e forse anche grazie alla accresciuta consapevolezza sulla gestione dell’evento. Nelle proiezione più importanti, alla presenza di attori e registi, ho constatato che le maschere svolgono un ruolo attivo pari a quello dell’anti pirateria, spostandosi tra le file per monitorare il comportamento del pubblico. Il personale della mostra sta gestendo in modo ottimo l’aumento di controllo senza che si verifichino contrasti, sebbene il pubblico non sia sempre attento, in particolar modo riguardo al metro di distanza da mantenere in coda. Alcuni spettatori agiscono ancora secondo le abitudini del passato, senza tenere a mente che non vale più niente sgomitare per arrivare tra i primi della fila, bensì essere i più rapidi ad accedere al sito Boxol.it per prenotare il proprio posto prima che questi terminino. Il sistema delle prenotazioni si sta rivelando un vero game changer in questa edizione, e credo che potrà essere mantenuto nei prossimi anni, magari con l’approntamento di una applicazione apposita.
Passiamo a questo punto ai film della giornata, che sono stati tantissimi. A partire da Milestone di Ivan Ayr (Orizzonti), film indiano che parla del confronto tra un camionista e il giovane apprendista che gli viene affiancato, le cui storie passata e futura si intrecciano sul più grande sfondo delle criticità del mondo del lavoro nel Paese, fino a Mosquito State di Filip Jan Rymsza (Fuori Concorso), film che si rifà all’archetipo dello scienziato pazzo incarnato però in un timido analista di dati di Wall Street intenzionato a modificare il suo modello di previsione del mercato basandosi sul ciclo vitale delle zanzare. Entrambi i film fanno il loro lavoro, ma nessuno dei due rimane un’esperienza indelebile. Manca ancora quella creatività e voglia di sperimentare che, forse a sproposito, sto cercando in questa edizione così particolare.
Lo stesso discorso si può applicare a The Disciple di Chaitanya Tamhane (Concorso), il primo film che vedo del concorso ufficiale e che non sembra avere le carte per vincere. Immerso nella musica classica indiana, della quale il protagonista è un esecutore e cultore appassionato che fa della sua vita la ricerca della perfezione nell’esecuzione, senza mai interrogarsi su quanto questa strada gli si addica. Il film parla di una enorme sfida e delle frustrazioni ad essa legata, con un linguaggio accessibile e quasi senza pretese, che ancora il lavoro a terra.

Il film che tra tutti mi ha più colpito è stato invece Bad Roads di Natalya Vorozhbit (Settimana della Critica). Si concentra su quattro episodi ambientati nel Donbass in guerra, in Ucraina, cercando di trasportare sullo schermo il contesto drammatico di un popolo diviso e devastato dalla violenza. Il primo episodio mi ha tenuta col fiato sospeso grazie a una favolosa orchestrazione quasi teatrale, nella quale il dirigente di una scuola viene fermato in un posto di blocco e dona a noi spettatori una inconsapevole rappresentazione di tutte le anime che si sono scontrate nel conflitto. Gli episodi successivi giocano sullo stesso meccanismo di creazione lente della tensione, ma i due centrali peccano a mio parere di una rappresentazione eccessiva della violenza, in modo quasi sadico. Il fatto che siano episodi con tutta probabilità avvenuti davvero perde di fronte all’estremismo di questa rappresentazione, ed è qui che il mio interesse per il film si è un po’ arrestato. Recupero con l’ultimo episodio, dove si arriva a una vicenda paradossale a causa dell’investimento di una gallina in una strada di campagna, che pare ben lontana da ogni conflitto. L’unico momento che richiama evidentemente a una situazione critica è quando l’anziana proprietaria della gallina schiacciata accoglie l’automobilista chiedendole: “Cosa succede? Sei stata violentata?”.
La sperimentazione in definitiva l’ho potuta vedere nelle due sezioni di cortometraggi, nei quali The Night Train di Jerry Carlsson, The Game di Roman Hodel (per la prima volta ho seguito con effettivo interesse una partita di calcio), Live in Cloud Cuckoo Land di Nghia Vu Minh e Thy Pham Hoang Minh e Workshop di Judah Finnigan, tutti diversi, magari non perfetti, ma capaci di trasmettere il punto di vista di un autore che ha ben chiara la propria poetica, e dei quali vedrei volentieri i futuri lavori. I due blocchi di film sono stati conclusi da due autori di spicco del panorama del cinema sperimentale, quali Luca Ferri, troppo lontano dalla mia comprensione e soprattutto dal mio gusto, e Bertrand Mandico, del quale avevo amato il film Les Garçon Sauvages e che in questo corto, The Return of Tragedy, replica con infinite varianti l’ingresso di due caricaturali poliziotti in un rito occulto che propone di “Tenere dentro il sorriso, ma esporre le proprie interiora”. Incredibile ma vero, in un complesso delirio Mandico sa cosa sta facendo, ed arriva dando mille sensazioni contrastanti, destabilizzando con incredibile energia.
